lunedì 27 ottobre 2008

Lettera a Vittorio Foa

Il nostro socialismo? Pensare agli altri nel futuro, in quel futuro di cui abbiamo nostalgia
di Felice Besostri
Caro compagno Vittorio, non Ti ho conosciuto da vicino nel senso di avere con Te diviso il pane, ma la Tua azione mi ha sempre suscitato un sentimento di ammirazione e rispetto.

Quello che mi è piaciuto sempre di Te è il rigore e la scelta di campo, in poche parole essere socialista coerente e conseguente: ce ne sono troppo pochi rispetto al necessario.

Rispetto ed ammirazione non comportano condivisione di tutte le Tue scelte politiche a partire dalla scissione della PSIUP negli ormai lontani anni Sessanta.

Sono convinto che le due scissioni che hanno travagliato il PSI nel Dopoguerra, quella di Palazzo Barberini nel 1947 e quella del PSIUP nel 1964, abbiano sortito effetti nefasti per la creazione in Italia di una forza egemone della sinistra dello stampo dei partiti socialisti, socialdemocratici o laburisti del resto d’Europa.

La mancanza di questa forza spiega il fatto che abbiamo la sinistra più debole d’Europa. In ogni caso, anche quando la somma di PSI e PCI aveva ben altra consistenza, la nostra fu una sinistra che non aveva la possibilità di governare insieme il paese con un proprio programma e un proprio leader.

Se le due scissioni non ci fossero state, Saragat avrebbe impedito la subordinazione frontista del Psi mentre compagni come Te e Lelio Basso avrebbero scongiurato le derive centriste e moderate.

Tutto questo ha segnato il destino della sinistra e democrazia in Italia, quindi anche il mio destino di socialista riformista (cotè intransigente) che ha avuto come punti di riferimento, oltre che in Te, in Pietro Nenni, Lelio Basso, Riccardo Lombardi e Fernando Santi, per rimanere in Italia. E se dovessi rivendicare ulteriori ascendenze, le rinverrei in Kautsky e nell’austromarxismo. Ripensandoci, uno strano destino davvero.

Caro Vittorio, non solo non condivisi la scelta dello PSIUP allora, ma sono rimasto sconcertato dalla moderazione con la quale hai accolto lo scioglimento dei DS nel calderone del PD. Forse è vero, che, anche questa volta, pensavi al futuro e non alle miserie del presente.

Sia come sia, con Te scompare l’ultimo dei compagni d’antan. Per non rendere il vuoto incolmabile, dobbiamo impegnarci verso i giovani, e farlo come Tu sei sempre stato capace.

Chissà se, come il coraggio di Don Abbondio, così anche i valori uno non se li possa dare se già non li ha. Possiamo, però, suscitare interesse e curiosità a cercarli.

Il punto di partenza, come Tu ci hai insegnato, è semplice: pensare agli altri nel futuro.
Questo moto in avanti appartiene alla tradizione iconografica socialista: il sole dell’avvenire, il sole di domani. Pierre Mauroy definiva i socialisti "eredi dell’avvenire".

Dovremmo cessare, come sinistra tutta, di dilapidare, insieme con quello ereditato dal passato, anche il patrimonio futuro.

Nella nostalgia, il "bisogno di (ri)vedere" (secondo la chiara etimologia della corrispondente parola tedesca “Sehnsucht”), non ci si rivolge necessariamente a ciò che è stato, ma anche quello che avrebbe potuto essere e soprattutto a quello che dovrebbe essere: a ciò che dovremmo impegnarci a determinare per il futuro.

Socialismo come nostalgia del futuro. Questo Socialismo sarà, noi non sappiamo esattamente come né quando, ma sappiamo come potrebbe essere un mondo più libero e più giusto. Poiché ce lo siamo immaginato, ne abbiamo nostalgia.

martedì 14 ottobre 2008

LIBERISMO versus DEMOCRAZIA

di Felice Besostri
La sofferta approvazione del piano per salvare la finanza americana e di riflesso quella mondiale ha aperto un dibattito tra i fautori di un intervento, non necessariamente favorevoli a quel intervento, ed i contrari per principio.

Tra i liberisti puri si è distinto, sull’edizione del 27 settembre 2008 di un quotidiano, Il Riformista, che apparteneva all’area riformista della sinistra, Alberto Mingardi, che ha il merito della chiarezza, cioè di definirsi un liberista sconfitto dalla democrazia.

L’autore vuole testimoniare due cose: “La prima, è che noi liberisti non siamo fatti per la politica democratica. La seconda, è che neanche la politica democratica è fatta per il liberismo, se non come estemporaneo candeggio con altri vestiti” e che “È vero ed evidente che la crisi americana ed il suo drammatico avvitarsi di questi giorni (non va sottovalutato il ruolo di una stampa che soffia scandalisticamente sul fuoco, con il banale obiettivo di cucinare il climax dell’elezione di Obama) pongono problemi grossi a chi pensa che sia giusto consentire agli individui di compiere autonomamente le proprie scelte, pagando eventualmente il prezzo dei propri errori.

Secondo l’autore la responsabilità della crisi, assecondando l’opinione di George Soros va in primo luogo fatta risalire al Tesoro Americano e alla Federal Reserve: “Non sono società quotate” annota il Mingardi.

Fermiamoci qui, per il momento.
La prima affermazione, quella della reciproca incompatibilità tra liberismo e democrazia, implica una scelta, cioè nel caso di contrasto chi debba essere sacrificato: è un giudizio di valore, ma nel contempo, come in tutte le vicende umane, un giudizio di opportunità.

Tra l’altro si affaccia una contraddizione nelle tesi sopra esposte, cioè se il timore è che scelte della rappresentanza politica possono essere dettate da ragioni diverse da quella della pura razionalità economica liberista, non è detto che le interferenze di un regime autoritario siano meno pericolose e minacciose di quelle di organi democraticamente eletti. L’autocrate e gli oligarchi non hanno bisogno del consenso (periodico) dei cittadini, ma non si sottraggono alla popolarità, al desiderio di essere amati (l’autocrate) ed al condizionamento dei propri interessi (le oligarchie): una crisi economica che minacciasse le ricchezze dei detentori del potere provocherebbe un intervento a loro difesa. Tra l’altro in sistemi non democratici i governanti, come individui, non pagherebbero nemmeno per le scelte autonomamente fatte: un principio liberista di carattere generale.

Quando additano gli errori di Tesoro e Federal Reserve, non ci si può esimere dal dire che sono stati il frutto di pressioni dei soggetti economici e finanziari o come dice Francesco Forte dell’alleanza “di profitto e salario”: immaginarsi se non c’era una responsabilità dei sindacati! Anche in un paese dove la sindacalizzazione è bassissima od addirittura nulla nelle imprese finanziarie, quelle che più hanno premuto per liberarsi dai controlli e da lacci o lacciuoli di norma regolatrici.

Il punto è che le politiche, anche quelle pubbliche, non sono decise in base al principio democratico, ma in base all’influenza dei gruppi organizzati e delle lobby, cioè di minoranze che antepongono i propri interessi a quelli generali.

Altro punto quantomeno discutibile della tesi del non intervento è che nelle situazioni di crisi l’unico principio liberista è quello di non far niente – cosa che sarebbe impossibile per la classe politica che è stata eletta per far qualcosa.

Se non si fosse fatto niente, gli individui (attori economici) che hanno fatto scelte sbagliate avrebbero pagato per i loro errori.

Non è per nulla dimostrato che avrebbe pagato chi ha fatto errori, ma tutti i cittadini, da quelli il cui fondo pensioni non avrebbe più garantito alcuna rendita, ai dipendenti delle società messe in liquidazione. Quali responsabilità hanno?

Di avere scelto il Fondo Pensione o gli amministratori di questi fondi o di aver eletto un Presidente che ha scelto un governatore della Federal Reserve, che ha fatto scelte nell’interesse degli amici di classe del Presidente?

Orbene, l’intervento per salvare i mercati può essere giusto o sbagliato nel merito, non per il fatto di esserci.
È sbagliato fare pagare ai cittadini gli errori dei grandi maghi della finanza creativa, soprattutto perché in questi ultimi anni le politiche fiscali hanno premiato i profitti e tosato salari e stipendi.

Se ciascuno avesse pagato in proporzione alle proprie fortune ed al proprio reddito, non vi sarebbe nulla di immorale nell’intervento pubblico, perché sarebbe finanziato dai beneficiari principali della deregulation.

L’immoralità è che invece pagheranno di più quelli che non hanno nessuna responsabilità, se non quella di avere subito le suggestioni di uno stile di vita imposto dai media controllati dai soliti gruppi di potere e pressione.

Giustissimo che “alla base dell’accumulazione c’è il risparmio, cioè l’astinenza dal consumo, che giustifica il tasso di interesse dei rentiers”.

Tuttavia, quando si predicava ad imponeva di consumare e di indebitarsi, perché quello era il modello di sviluppo, dove stavano le vestali del liberismo?.

Nel fallimento si possono far valere le responsabilità dell’imprenditore e degli amministratori: la bancarotta è addirittura un reato.

Se si vuole far pagare i responsabili, nulla impedisce che nelle regolamentazioni per il salvataggio si introducano le sanzioni per i responsabili.

Per salvare Alitalia, invece, abbiamo fatto il contrario, cioè esentato da responsabilità gli amministratori, cioè i responsabili del disastro.

È vero che scelte del management sciagurato derivano dalla pressione della politica, cioè dal potere che nomina i manager nelle aziende pubbliche, ma la civiltà giuridica ha imposto il principio, che eseguire ordini dai superiori non esenta dalla propria responsabilità, se si commettono crimini.

Non è la politica, ma l’impunità che consentono di rafforzare legami impropri tra i detentori del potere politico e gli attori delle scelte economiche ed industriali: i manager, pubblici o privati che siano, devono rispondere per quello che fanno, indipendentemente dal fatto che abbiano agito per compiacere i propri referenti politici o l’azionista di riferimento, se le loro azioni non corrispondono all’interesse della società: semmai è un’aggravante.

Dopo la guerra in diversi paesi si introdusse una imposta straordinaria sui profitti di guerra: non sarebbe il caso di introdurla sui profitti conseguiti grazie alle bolle speculative?

Un liberista che crede al mercato autoregolantesi dovrebbe essere convinto che il miglior mercato è quello composto da individui che compiono scelte razionali, per essere razionali bisogna conoscere.

Per quale ragione il sistema capitalistico, invece, prospera nell’ignoranza della grande maggioranza dei suoi attori? Quando il castello finanziario, che può crollare viene valutato 63.000 miliardi dollari, cioè più del PIL dell’intero pianeta, il ridicolo è costituito da un intervento di 700 miliardi di dollari, poco più del 1% del problema. Troppo poco e nell’interesse di troppo pochi, anche se alla fine sono diventati 850 miliardi.

Come ci insegna J.K. Galbraith l’unico socialismo che gli USA possono tollerare è il socialismo per i ricchi. Di fronte alla crisi dei mercati finanziari, che, se non governata, avrà presto pesanti ricadute sull’economia reale, sembra che si verifichino strane convergenze tra i liberisti puri ed i catastrofisti di sinistra. Per i primi non si deve intervenire perché dai fallimenti a catena sorgerà, a prescindere dai costi sociali ( vi ricordate Furore di Steinbeck ? ) risorgerà dalle ceneri un capitalismo più efficiente. Per i secondi il crollo del capitalismo scatenerà le forze rivoluzionarie. Per i socialisti democratici e riformisti la crisi generalizzata va invece evitata, ma non per salvare Wall Street, ma per evitare le sofferenze della maggioranza dei cittadini, specialmente di chi vive del proprio lavoro, per riaffermare il principio dell’interesse generale, per rafforzare il governo democratico della società, per introdurre più giustizia ed equità, cioè ridistribuire la ricchezza. Dalla crisi si può uscire con un New Deal o con un’economia di guerra, come è stato il nazismo in Germania: la svolta rivoluzionaria non è garantita. Dal crollo del mito del mercato e del laissez faire può avere nuovo impulso la critica della società esistente, che è la premessa indispensabile per ogni idea di socialismo, sempre che esista una sinistra capace di elaborare soluzioni e di proporre modelli di sviluppo e di vita e valori alternativi a quelli, che ci hanno fatto precipitare in questa gravissima crisi. In difetto si scateneranno gli egoismi degli individui e delle nazioni più favoriti con i corollari già conosciuti dei nazionalismi sciovinisti, dei localismi esasperati e dell’aggressività guerrafondaia per il controllo delle risorse.