giovedì 26 marzo 2009

LIBERISTI TRA TEORIA... E PRASSI

Lo Stato deve mettere i soldi, ma non il becco: non deve occuparsi di controllare i consigli di amministrazione o mettere limiti agli stipendi e bonus...

di Felice Besostri

I liberisti sono divisi tra pratici ed ideologici. Per i pratici l'importante è salvare le aziende, in primo luogo gli istituti finanziari, quelli che più economisti hanno al loro servizio, quindi soldi e soldi dall'erario in qualsiasi forma: prestiti, garanzie, acquisto di titoli tossici, addirittura nazionalizzazioni (temporanee) delle banche e delle assicurazioni.

    Sia ben chiaro, lo Stato ci deve mettere i soldi, ma non il becco negli affari: non deve occuparsi di controllare con propri fiduciari i consigli di amministrazione o mettere limiti agli stipendi, benefits ed altri bonus dei manager. Gli ideologici temono l'intervento pubblico, comunque. La ricerca di responsabilità per la crisi non può che portare a regolamentazioni autoritarie, che mettano in discussione le capacità auto regolative del mercato. Le nuove regole non possono che essere poste dalla classe politica, vuoi dai parlamenti nazionali, vuoi dalle istituzioni politiche o finanziarie internazionali controllate o fortemente influenzate dai governi.

    Scrive uno di loro, il Mingardi Alberto del Riformista: "Per la classe politica, la crisi è l'occasione per invertire la tendenza degli anni scorsi, ripristinare il primato della politica, che in soldoni vuol dire trasformare di nuovo finanzieri e banchieri in vassalli e valvassori del potere. I contorni di questo feudalesimo prossimo venturo vanno ancora messi a fuoco. Ma che saremo meno liberi e più poveri è quasi una certezza" (11 marzo 2009). Nella storia, anche recente, è più facile incontrare politici che sono al servizio di finanzieri e di banchieri, che viceversa. Chi nomina chi è importante, ma è più importante conoscere i criteri di nomina: da questo punto di vista che chi nomini sia un politico o un privato poco importa. Il politico può nominare un suo cliente, ma anche il privato può nominare un suo socio d'affari o il cugino o il cognato, il figlio o l'amante.

    Il punto è che vi siano procedure trasparenti per la nomina e procedure per la revoca di nomine sbagliate: da chiunque siano state fatte. Risparmiatori grandi o piccoli si son trovati più poveri per avere seguito i consigli di funzionari di banca - non nominati da alcun politico- di comprare obbligazioni Parmalat o Cirio. Non voglio parlare dei clienti di Madoff, sicuramente degli avidi per credere ai suoi miracoli, ma se tanti Madoff mettono in crisi il sistema finanziario e perciò danneggiano milioni di persone estranee non sono convinto che sia un prezzo da pagare alla libertà. Con un poco di pazienza Mingardi poteva leggere sul suo stesso giornale il nome di Joseph Cassano indicato da Mauro Bottarelli (Il Riformista del 13 marzo 2009) come colui che ha affondato la finanza. La sua è una delle tante storie: vi ricordate quel trader della filiale di Atlanta della BNL o dell'altro che da Singapore affondò una delle più antiche banche britanniche? Ovvero di Jerome Kerviel della Société Générale? Cassano è stato capace di accumulare in otto anni 500 miliardi di esposizione ad asset tossici mandando al collasso quella che era una delle più grandi assicuratrici del mondo, la statunitense AIG. Cassano era stato nominato da un politico? Ci ha reso più ricchi, a parte lui con una buonuscita di 280 milioni di dollari? E più liberi, quando ha obbligato il Tesoro americano a sborsare 170 miliardi di dollari per tentare di salvare AIG!?

    Gli Stati sono obbligati a fare una politica economica, che non era quella avallata dagli elettori, sotto la spinta di una crisi provocata da privati. I politici, quantomeno, sono costretti a presentarsi periodicamente al giudizio dei cittadini, mentre finanzieri e banchieri no e si sottraggono persino al controllo degli azionisti, almeno finché non scoppia il bubbone. Tuttavia per chi vuole una società più equa e perciò più libera i veri nemici sono i liberisti pratici e non quelli ideologici. Non si possono scambiare le nazionalizzazioni delle banche per un inizio di socialismo: è il vecchio trucco di socializzare le perdite, dopo aver privatizzato i profitti. La proprietà pubblica di per sé non è un progresso, ne è stato massimo esempio il sistema sovietico: la proprietà statale era al servizio della nomenklatura, cioè di un'oligarchia, e non del popolo lavoratore. La cosa era talmente vera, che la stessa nomenklatura se ne è formalmente appropriata con i processi di privatizzazione. Le partecipazioni statali sono state in Italia appannaggio del loro management, i cosiddetti boiardi di Stato, il cui potere si intrecciava con quello politico. Chi condizionasse chi non era ben chiaro: pensiamo ad Enrico Mattei, per esempio (o al trentennale presidente della società di navigazione Tirrenia).

    Gli interventi pubblici devono garantire il credito e la fiducia dei risparmiatori, non gli azionisti delle banche, si può intervenire nell'industria soltanto se si tratta di settori strategici e, affinché sia chiaro, l'industria automobilistica non è uno di questi. E' meglio ed aiuta di più ad uscire prima dalla crisi sostenere disoccupati e licenziati, che conservare posti di lavoro in aziende in deficit. Sostenere il reddito significa non far crollare i consumi, senza i quali non c'è crescita economica possibile. Su questo terreno è forse possibile trovare un'intesa con i liberisti ideologici, piuttosto che con quelli pratici, perché questi ultimi sono di solito sul libro paga di qualcuno, specialmente di quei settori che chiedono aiuti di Stato.

giovedì 19 marzo 2009

Di strappo in strappo

Modifica dei regolamenti parlamentari o nuovo tentativo di golpe istituzionale?

di Felice Besostri

La costituzione della Repubblica Italiana configurava e formalmente ancora configura uno Stato con forma di governo parlamentare, nel quale l’indirizzo politico è determinato dal rapporto tra Parlamento e Governo.

Con le riforme delle leggi elettorali con l’indicazione del candidato premier, già è stata modificata la forma di governo, con accentuazione del ruolo del Primo Ministro.

Il Primo Ministro, rimanendo invariato l’art. 92 della Costituzione è ancora nominato dal Presidente della Repubblica, che è però vincolato dalle indicazioni del corpo elettorale. Il premio di maggioranza e le liste bloccate, confezionate dal capo delle coalizioni, hanno creato, in fatto, una sorta di premierato: come in Gran Bretagna è il leader del partito vincitore che viene nominato.

    Il premier Berlusconi ha dimostrato che pur disponendo di una amplissima maggioranza parlamentare in Parlamento, non è capace di governare, se non a colpi di voti di fiducia e di decreti legge.

    Il nostro Primo Ministro è sempre più insofferente rispetto alle procedure parlamentari: una semplice perdita di tempo nella sua visione carismatico-autocratica.

    Ecco il colpo di genio: in Parlamento non dovrebbero più votare si singoli parlamentari, ma soltanto i capigruppo!
Non ci sarebbero più problemi di quorum per le votazioni.
Come corollario ha proposto anche una drastica diminuzione dei parlamentari.
    Non si capisce a questo punto perché non proponga che si eleggano soltanto i futuri capigruppo che rappresenterebbero in Parlamento tanti parlamentari, quanti sarebbero spettati alle singole liste in base ai voti ottenuti.

    Questa logica conseguenza delle idee del Berlusconi è una pura provocazione: è chiaro che non passerebbe mai per l’opposizione di tutti i parlamentari compresi quelli del PdL.

    Purtroppo, per lui, alla proposta di Berlusconi si oppone il dettato della Costituzione e precisamente l’art. 67 Cost., che recita: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Funzione essenziale dei parlamentari è quella legislativa, compresa l’iniziativa delle leggi (artt. 70 e 71 Cost.).

    L’attività non è vincolata da alcun mandato, compreso quello del Gruppo di appartenenza. Ogni parlamentare può parlare e votare in dissenso dal gruppo di appartenenza: quindi il Capogruppo non può votare in sua vece.

    I Capigruppo, riuniti nella Conferenza dei Capigruppo, hanno poteri enormi sul calendario dei lavori: se potessero votare in luogo dei singoli parlamentari saremmo di fronte ad un golpe istituzionale: un vero e proprio attentato alla Costituzione.

    Purtroppo i rimedi giuridici contro le riforme dei gruppi parlamentari sono scarse se non inesistenti.
    Come nei confronti delle legge elettorali incostituzionali il nostro ordinamento anche per l’ignavia delle Corti Giudiziarie e della Corte Costituzionale non offre garanzie giurisdizionali.

    Si pensi che contro le leggi elettorali incostituzionali ci si dovrebbe rivolgere, secondo la nostra Eccellentissima Suprema Corte di Cassazione, alle Giunte delle Elezioni delle Camere elette con la legge ... incostituzionale!

lunedì 16 marzo 2009

I socialisti nelle recenti elezioni in Austria e in Spagna

Un passo avanti, due indietro

I socialisti nelle recenti elezioni in Austria e in Spagna

di Felice Besostri

Due partiti socialisti hanno affrontato, domenica 1 marzo, elezioni regionali in Austria e Spagna.
    Nel complesso non sono andate bene con la sola eccezione del Paese Basco, dove, però, la vittoria apre problemi sul piano nazionale di non poco conto per il governo socialista di Zapatero.

    In Austria il test più importante, anche simbolicamente, era quello della Carinzia: le prime senza Haider, dopo la sua morte per incidente stradale.

    Il partito da lui fondato, dopo aver lasciato polemicamente la FPOe, la Lega per il Futuro austriaco BZOe, ha ottenuto il 45,6% dei voti e 17 seggi.

    I socialisti della SPOe, pur guidata a livello nazionale dal dinamico cancelliere Werner Fayman, perde invece i 10 punti percentuali, crollando dal 38% al 28%. Un pessimo risultato ricordando che la Carinzia prima della comparsa di Haider era uno dei Land, in cui i socialisti avevano ottenuto anche la maggioranza assoluta.

    In Carinzia la BZOe ha liquidato i concorrenti della FPOe, che con il 3,5% non riusciranno nemmeno ad entrare nel Parlamento regionale.

    Questa volta i Verdi non hanno beneficiato delle perdite socialiste, poiché sono rimasti fermi al 5,6%, mentre i popolari della OeVP, alleati di governo dei socialisti, crescono al 16,5%.

    I risultati sono sorprendenti; ormai si vota sempre più con la pancia e meno con la testa: il bilancio della gestione Haider e del suo successore Dörfler è disastroso. Con due miliardi di Euro di deficit e lo 11,5% di disoccupati la Carinzia ha due record negativi tra i Land austriaci.

    In Spagna votavano due Comunità Autonome altamente problematiche, la Galizia ed il Paese Basco.
    La Galizia è la più povera regione spagnola, ancora più povera in seguito alla crisi economica. Con la sola eccezione del 2005 la Galizia è sempre stata un feudo della destra di Alleanza Popolare prima e del Partito Popolare poi: non per nulla lì aveva trovato il suo rifugio politico Fraga Iribarne.

    È, inoltre, una regione dove la destra si è sempre caratterizzata per il suo clientelismo ed un rapporto personale: i "cacicchi" ne sono stati una delle espressioni più note.

    Nel 2005, appunto, l’alleanza tra il PSOE e i nazionalisti del Blocco Nazionale Galiziano strappa la maggioranza assoluta per un solo voto ai popolari. La maggioranza ridotta ed i vincoli di decenza non hanno consentito al Governo galiziano di acquistare popolarità.

    Di contro il controllo delle Deputazioni Provinciali ha consentito al PP di trasformare il pubblico impiego nella più fiorente industria della regione.

    Nell’Ourenza tra i 1200 dipendenti della Deputazione Provinciale ci sono veri e propri scandali come i 33 portinai per sole tre entrate nel palazzo del governo provinciale e i 17 stallieri per 15 cavalli: chi fosse amministratore comunale o dirigente politico nel PP aveva il posto assicurato.

    Il candidato del PP, Feijóo, ha potuto godere dell’appoggio senza riserve di Mariano Rajoy, un altro galiziano, che giocava il suo futuro.

    Il PP è lacerato da lotte intestine senza risparmio di colpi tra le diverse fazioni in lotta ed alla vigilia delle elezioni di uno scandalo di corruzione politica da far impallidire Tangentopoli.

    Il margine di maggioranza dei popolari è di tre seggi e non devono governare in coalizione.
    A differenza della Sardegna si tratta di una chiara vittoria della destra, più che una sconfitta della sinistra (in Spagna) o del centro-sinistra (in Italia).

    La partecipazione elettorale è aumentata rispetto al 2005 di 51.000 votanti ed il PP ha avuto 55.000 voti in più guadagnati dal BNG, che ha perso 40.000 voti, quasi il doppio di quelli perduti dal PSOE. I delusi della sinistra vanno ricercati nei voti bianchi aumentati di un terzo e nei nulli e/o dispersi, più di 100.000.

    In compenso nel Paese Basco la vittoria socialista è stata netta, pur non avendo raggiunto lo status di primo partito.

    Il PSOE di Euskadi è passato dal 22,6% al 30,7% e da 18 a 24 seggi.
    Tuttavia il dato più impressionante è che per la prima volta in 30 anni i partiti nazionalisti perdono la maggioranza assoluta.

    Il PNV mantiene i suoi 29 seggi, ma a spese del suo alleato EA delle due precedenti elezioni.
    Le formazioni legate ad ETA sono state vietate alla vigilia delle elezioni e per questo la parola d’ordine era di astenersi! Il Partito Comunista dei Lavoratori baschi, vicino a ETA, era presente nel precedente parlamento con 9 seggi ed il 12,4% dei voti.

    L’indicazione è stata seguita: si contano quasi 100.000 voti nulli, ma non totalitariamente, tanto che una formazione di sinistra nazionalista fortemente critica nei confronti della violenza terroristica è cresciuta da 1 a 4 seggi e dal 2,3% al 6,05%.

    La formazione basca legata a Izquierda Unita, che sosteneva il governo del PNO, è stata sconfitta, da tre a un seggio, mentre una nuova formazione derivante da una scissione dei socialisti baschi, la UPyD, è entrata nel Parlamento regionale con un deputato.

    La vittoria dei socialisti e del loro leader Patxi López, però corre il rischio di creare problemi: innanzi a tutto una maggioranza alternativa al PNV è possibile soltanto con un’ammucchiata con il PP.

    Un governo socialista con i nazionalisti baschi pone il problema, che secondo il costume politico spagnolo la Presidenza del governo regionale spetterebbe al Partito di maggioranza relativa, il PNV: una coalizione che sarebbe focalizzata dai contrasti.

    Tuttavia i problemi maggiori sono per il Governo Zapatero, perché un governo basco che escludesse il PNV avrebbe immediati riflessi ritorsivi.

    A Zapatero mancano sette seggi per avere la maggioranza nelle Cortes: finora gli erano stati assicurati bene o male dal PNV. Una loro ostilità lo costringerebbe a ricercare altri allegati ed a pagare altissimi prezzi.

    Con queste elezioni è la prima volta che Zapatero ha una sconfitta elettorale: un segnale di caduta di popolarità per la crisi economica, che il governo non riesce, come, peraltro, tutti gli altri governi del mondo, a controllare.