mercoledì 30 marzo 2011

Per una nuova politica economica in Europa

PERISCOPIO SOCIALISTA 

A cura di Felice Besostri

 

Il 24 e il 25 marzo si è tenuta a Bruxelles una riunione del Consiglio Europeo sul tema delle misure con cui affrontare la crisi attraversata dall'Unione Monetaria Europea (UME). Le scelte che sembrano profilarsi continuano ad essere ispirate a un approccio conservatore e "rigorista". È necessaria pertanto una campagna che susciti consapevolezza e mobilitazione attorno alla necessità di una svolta nella nuova politica economica europea.

 

La crisi dell'euro, costi sociali e insufficienza delle misure proposte

La crisi economica mondiale, la cui principale ragione di fondo va rinvenuta nella caduta della capacità di consumo dei lavoratori dei paesi industrializzati nell'ultimo trentennio, ha avuto un impatto disomogeneo nell'Unione Monetaria Europea, esaltando la divaricazione tra due aree d'Europa, una "centrale" e forte, e l'altra "periferica" e debole.

    A ben vedere, infatti, la crescita registrata negli scorsi anni in alcuni paesi della periferia si è rivelata effimera, dal momento che si è tradotta in un boom dell'edilizia residenziale più che in un vero rafforzamento industriale. Al tempo stesso, l'incremento del debito pubblico in Spagna e Irlanda ha origine nella necessità di coprire l'indebitamento del settore bancario verso le banche dei paesi forti, e non dunque in irresponsabili politiche di spesa pubblica. Il più forte aumento dei salari nominali (sebbene non di quelli reali) nella periferia, che è seguito alla pur fittizia crescita, ha accentuato la perdita di competitività di quei paesi. In questa vicenda non ci sono paesi buoni e cattivi, ma scelte di fondo sbagliate riconducibili alla filosofia neo-liberista. Questa ha ispirato sia il neo-mercatilismo dei paesi centrali, che attraverso la moderazione salariale ha condotto a bassi consumi interni ed esportazioni competitive, sia il maldestro tentativo dei paesi periferici di importare attraverso la moneta unica (che per definizione impedisce accomodamenti del conflitto sociale attraverso gli aggiustamenti del cambio) ulteriori dosi di disciplina, flessibilità e precarietà nel mercato del lavoro. In questo contesto, gli aiuti europei a favore dei paesi indebitati sono stati resi disponibili a tassi di interesse elevati  che, sommandosi all'imposizione di misure di bilancio restrittive, non potranno che aggravarne la crisi, rendendo vani gli enormi prezzi sociali e occupazionali causati da quelle stesse misure. L'intervento della Banca Centrale Europea (BCE) a sostegno dei titoli pubblici di quei paesi – una interessante novità – è stato del tutto insufficiente.

    Purtroppo le misure in corso di approvazione nel prossimo summit non modificano tale impostazione. Esse si limitano infatti a un marginale incremento del fondo salva-stati già esistente e a definire l'entità di quello che lo sostituirà nel 2013, con un piccolo ritocco all'ingiù dei tassi usurai praticati alla Grecia. Soprattutto, si deliberano piani di riduzione del rapporto debito pubblico/PIL dei paesi ad alto debito, anche attraverso nuove privatizzazioni, ed un meccanismo di sanzioni per i paesi che non vi si attengono. Queste misure confermano il perdurante orientamento conservatore delle politiche europee, indifferente all'aumento della disoccupazione, ai tagli allo stato sociale e all'istruzione, alle prospettive di milioni di cittadini europei, in particolare a quelle delle giovani generazioni.

    Contemporaneamente, la BCE sembra volersi sottrarre al proprio dovere di sostegno dei titoli pubblici dei paesi più indebitati, mentre al contempo sin avvia verso un improvvido aumento dei tassi di interesse che nulla può contro l'aumento dei costi dell'energia, alimentari e materie prime.

    La filosofia che prevale è quella del rigore. Alla deflazione di salari e prezzi interni, la cosiddetta "svalutazione interna", è assegnato il compito di far riguadagnare a tali paesi la competitività perduta Si tratta di una logica distruttiva, che nega prospettive al modello sociale europeo e che rischia di mettere in pericolo la tenuta stessa dell'Unione Monetaria, come chiarito nella "Lettera" sottoscritta da oltre 250 economisti italiani e stranieri nello scorso giugno.

 

Cosa proponiamo in alternativa?

 

Per una nuova politica economica europea

Per evitare la deflagrazione dell'UME non è possibile fare semplicemente affidamento su un sistema di garanzie all'emissione dei titoli dei paesi fortemente indebitati  - i cosiddetti Eurobonds, o l'Agenzia Europea per il debito. Queste proposte, di per sé pure interessanti, sono da sole insufficienti, e diventano null'altro che fumo negli occhi, se accompagnate dall'accettazione di nefaste politiche di bilancio restrittive e da una politica monetaria del tutto indifferente allo sviluppo e all'occupazione e preoccupata solo di contenere l'inflazione. Le forze progressiste e il mondo del lavoro, in Europa e in Italia, devono essere consapevoli che occorre una svolta di politica economica per uscire dalla crisi della zona euro e porre le condizioni per uno sviluppo armonico e duraturo.

    Sono tre le misure da mettere in campo immediatamente per intraprendere un percorso che contemperi la stabilizzazione della crisi debitoria con una ripresa dello sviluppo e della crescita occupazionale anche nei paesi periferici:

    1. occorrerebbe abbandonare le politiche di abbattimento del debito pubblico, chiedendo ai paesi indebitati di stabilizzare nel medio periodo i livelli attuali del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, come proposto per l'Italia dall'Appello degli economisti del 2006. Contemporaneamente, i Paesi con surplus commerciale dovrebbero abbandonare le politiche di moderazione salariale ed effettuare politiche fiscali espansive, tali da riportare in equilibrio la loro bilancia commerciale e contribuendo in questo modo al rilancio delle esportazioni dei paesi indebitati e alla stabilizzazione del debito;

    2. la politica monetaria dovrebbe essere orientata a promuovere lo sviluppo, assicurando tassi di interesse sui debiti pubblici sostenibili (sostanzialmente tenere molto bassi i tassi di interesse a lungo termine), tali cioè da realizzare l'obiettivo 1 senza mortificare spesa sociale, occupazione e crescita;

    3. la dinamica della domanda interna e la politica salariale dovrebbero essere orientate al perseguimento, in particolare nei paesi con avanzi con l'estero, di un tasso di inflazione non inferiore a quello di riferimento europeo – da accrescere al 3%.  I salari reali non possono essere in ciascun paese inferiori alla crescita della produttività. Quindi servono forme di tutela quali il salario minimo garantito (come sta scritto in una recente risoluzione del parlamento europeo) e la libera contrattazione sindacale. I paesi che continuassero a praticare politiche deflazionistiche e restrittive, al fine di realizzare obiettivi d'inflazione inferiori a quello europeo, cercando di guadagnare così competitività alle spese dei partner, dovrebbero essere soggetti a misure di pressione volte a incoraggiare un mutamento di quelle politiche;

    4. occorrerebbe contrastare la speculazione internazionale e i fenomeni di dumping sociale in particolare da parte dei paesi esterni all'Unione Monetaria, con forme di regolamentazione e imposizione fiscale sulle transazioni finanziarie speculative (come la Tobin tax) e sul commercio sleale e di armonizzazione fiscale.

    Le proposte ora delineate non possono non richiedere un mutamento profondo delle istituzioni economiche europee, e in particolare:

    a) va ufficializzato il ruolo dell'Eurogruppo (il consiglio dei ministri economici) come sede di coordinamento della politica fiscale e monetaria con l'obiettivo prioritario della piena occupazione;

    b) lo statuto della BCE va modificato, contemperando l'obiettivo della stabilità dei prezzi a quello della massima occupazione (similmente a quanto avviene per la FED statunitense). Che scelte vitali per milioni di cittadini, quali quelle della politica monetaria, siano nelle mani di una istituzione tecnocratica non vincolata alle scelte popolari espresse dai Parlamenti nazionali ed europeo, dovrebbe risultare intollerabile per la sinistra e i sindacati europei. Quindi va valorizzato il ruolo  di indirizzo delle politiche economiche.

    Le vicende che hanno accompagnato la crisi mostrano che dietro la pressione degli eventi sono possibili rapidi passi in avanti, precedentemente quasi impensabili. La  mobilitazione della sinistra europea deve spingere tale processo più in là anche accrescendo la coscienza di massa su questi temi.

    In questo quadro sarebbe possibile rilanciare il modello sociale e cooperativo europeo sui tre pilastri di:

    - ricerca del consenso dei lavoratori e delle loro organizzazioni nei riguardi delle politiche del lavoro e distributive volte ad assicurare una  più equa distribuzione del reddito che, in un quadro non inflazionistico, sostenga attraverso più elevati salari reali la domanda interna nei vari paesi;

    - più armonico equilibrio territoriale ed implementazione di un meccanismo di riequilibrio rispetto agli shock asimmetrici garantito da consistente finanziamento del bilancio dell'Unione;

    - sostegno ai sistemi di welfare state come strumento di coesione sociale;

    - sostenibilità ambientale con lo sviluppo di consumi sociali e nella conoscenza, e investimenti in tecnologie sostenibili.

 

Il rilancio delle competitività nazionali, in particolare nella periferia, non potrà mai avvenire in un quadro di caduta di occupazione, spese sociali, istruzione  e innovazione. Al riguardo, ciascun paese deve riacquistare la sovranità completa nella politica industriale che includa un intervento attivo del settore pubblico, di programmazione e partecipazione diretta, nei settori industriale, energetico e bancario. I sistemi bancari nazionali vanno in particolare riformati nella direzione di farne strumento di supporto a uno sviluppo reale e sostenibile e non drogato da bolle speculative.

 

L'Europa a un bivio

Le proposte liberiste e rigoriste che verranno avanzate nel prossimo vertice aggraveranno il carattere dualistico dell'economia europea: un "centro" poderoso che persegue politiche neo-mercantiliste di vender molto agli altri e comprar poco da loro, e una "periferia" destinata al declino economico, sociale, ambientale e all'instabilità politica. Le misure sul tappeto a Bruxelles sono profondamente sbagliate e non potranno che accentuare la minaccia della deflagrazione monetaria, sociale  e politica dell'Europa. È indispensabile per una diversa politica economica volta alla crescita concertata ed equilibrata della occupazione e dei consumi sociali, nel rispetto dell'ambiente. Su questi temi il mondo progressista italiano ed europeo deve perciò farsi promotore di una campagna che accresca la consapevolezza  e la mobilitazione popolare.

 

Network per il  socialismo europeo

AltraMente scuola per tutti

Associazione per il rinnovamento della sinistra

Associazione culturale in Movimento

Centro studi Cercare ancora

Fondazione Buozzi

Fondazione Nenni

Lavoro e Libertà

Le nuove ragioni del socialismo

Marx XXI

Socialismo 2000

mercoledì 23 marzo 2011

Guasto è il mondo

PERISCOPIO SOCIALISTA 

A margine della revisione teorica in corso nel PSE (seconda parte).

di Felice Besostri

Finalmente è stato tradotto anche in italiano il libro uscito postumo di Tony Judt (1948-2010) con il titolo “Guasto è il mondo” (Laterza, 2011, titolo originale Ill fares the land).

   Si legga la parte dedicata all’altra grande crisi del 1929-1932 in cui tutta la sinistra storica, dai comunisti ai socialdemocratici, non elaborò alcuna proposta su cosa fare affinché non si ripetesse e si uscisse dalla crisi. Una volta detto che la colpa era del capitalismo e delle sue contraddizioni interne, ci si è fermati là.

    Da quella crisi si uscì con le politiche economiche keynesiane, ma soprattutto con la Seconda Guerra Mondiale.
    Non ci sono ricette semplici ma si dovrebbe quantomeno sottoporre a una verifica proposte come quella di una decrescita, come unica risposta alla compatibilità ambientale. Senza crescita non si possono ridurre le diseguaglianze mantenendo un sistema democratico, cioè basato sul consenso della maggioranza dei cittadini.

    Le disparità di reddito e di patrimoni si sono incrementate anche all’interno delle società sviluppate e gli squilibri di sviluppo planetari, aggravati dalle speculazioni sulle materie prime e i prodotti agro-industriali, sono un fattore costante di minaccia alla pace oltre che provocare fenomeni di portata mondiale, quali le migrazioni di massa, in cui fattori economici e politico-sociali sono strettamente intrecciati.

    In una situazione come questa si comprende (psicologicamente, meno politicamente), che, nonostante la revisione iniziata all’interno del PSE (e che si è estesa all’Internazionale Socialista dopo gli infortuni legati ai partiti associati di Egitto e Tunisia, radiati in tutta fretta) e dei suoi maggiori partiti (SPD e Labour in testa), si pensi agli anni ’90 del secolo scorso ancora come la golden age del socialismo democratico europeo.

    Ricordate quando su quindici membri dell’allora UE, tredici avevano un primo ministro socialista e il 14° era Romano Prodi? Mai i partiti socialisti democratici avevano avuto tanto consenso democratico come allora. In realtà, si tratta di una constatazione tanto fuorviante quanto quella che, dopo le sconfitte elettorali, dà il socialismo, nella versione socialdemocratica, per definitivamente tramontato.

    Il punto è altro: l’uso fatto del consenso per raggiungere gli obiettivi propri di un movimento socialista e di sinistra sia nelle politiche economiche nazionali sia nelle istituzioni europee.

    Il consenso in elezioni nazionali è stato l’alibi per non cambiare nulla, né nella struttura e nel coordinamento europeo dei partiti socialisti, né nelle istituzioni europee, men che meno per mettere in discussione il pensiero unico neoliberista. Finché c’era crescita era possibile una distribuzione della ricchezza, che si traduceva in consenso elettorale.

    Se mi è consentito un paragone, è stata una fase, come quella dell’acme dell’imperial-colonialismo europeo, che ha consentito le prime leggi sociali per tenere buona la forza crescente dei partiti socialisti democratici.

    Così, il socialismo democratico del secondo Dopoguerra ha fatto un compromesso con il capitalismo, che nel complesso si deve giudicare virtuoso, nel senso che ha consentito un modello sociale europeo che rappresenta una delle più alte conquiste dell’umanità e che altri stati di forte sviluppo come gli USA o la Federazione Russa e la stessa Cina Popolare sono costretti a invidiarci.

    Prima ancora, il nesso originario e indissolubile del socialismo democratico europeo venne però stabilito più con la libertà e la democrazia. In questo, la rottura con il filone comunista è stata netta. (2/3. Continua) 

martedì 15 marzo 2011

Revisione in corso

PERISCOPIO SOCIALISTA 

A margine della revisione teorica in corso nel PSE

di Felice Besostri

Le sconfitte elettorali dei partiti del PSE non hanno una spiegazione univoca. Alfred Gusenbauer, già cancelliere socialista austriaco nel biennio 2007-2008, è il presidente del “Next Left”, il programma di ricerca della Foundation for European Progressive Studies (FEPS).

    La FEPS raggruppa più di 40 fondazioni e think tanks della UE e le sue attività sono co-finanziate dal Parlamento Europeo.

    La Fabian Society, organizzazione collaterale del Labour Party, e la FEPS hanno, quest’anno, editato insieme una pubblicazione dal titolo Europe’s Left in the Crisis. How the next left can respond (“Sinistra d’Europa nella crisi. Come può rispondere la prossima sinistra”).

    Già il titolo merita una riflessione. Anzitutto si usa la parola “sinistra” invece che “socialismo democratico”. Ma la riflessione ricorda il famoso libro di Eduard Bernstein I presupposti del Socialismo e i compiti della Socialdemocrazia, pubblicato nel 1899 e che diede l’avvio a uno dei più vasti dibattiti all’interno della cosiddetta Seconda Internazionale, conosciuto appunto come Bernstein-Debatte.

    L’espressione “nella crisi” non ha lo stesso significato di “in crisi”, ma di questo in realtà si parla, perché non ci sono ricette per come uscire dalla crisi, ma piuttosto un’attenzione sui valori minacciati dalla crisi e che dovrebbero essere invece preservati.

    Ernst Steter, il segretario generale della FEPS, ha presenta la pubblicazione partendo dalle parole pronunciate da Willi Brandt quando si inginocchiò davanti al monumento all’insurrezione del Ghetto di Varsavia: “La pace, come la libertà, non è uno stato originario, che esiste fin dal principio; noi dobbiamo farlo essere nel più vero senso della parola”.

    In un’epoca di grande ansia, intensificata da tutta la miseria umana portata dall’ultima crisi economica, i progressisti hanno il dovere storico di ristabilire se stessi come i rappresentanti, democraticamente legittimati, del popolo.

    La missione dei progressisti – per Gusenbauer - è di stare dalla parte dell’uguaglianza e dell’equità, della libertà e della solidarietà per porle nel nucleo centrale di un “nuovo contratto sociale”: è necessario restaurare la fiducia in questi valori in tempi difficili, quando sono stati oscurati dalla paura e da un gretto individualismo. Niente da eccepire, ma non basta, se alla denuncia non segue la proposta. È questo il limite anche del documento sulla politica economica uscito dal vertice di Atene del PSE dal titolo “Siamo nelle mani sbagliate”. L’unica proposta è quella della tassazione sulle transazioni finanziarie, che non risolve i problemi del rilancio dell’economia, che non può prescindere dal rilancio di una politica industriale.

    Il fattore scatenante della crisi è stato l’emissione di strumenti finanziari fuori da ogni controllo, ma sarebbe sbagliato puntare le critiche soltanto sulle finanze e i finanzieri (cattivi, anzi malvagi) lasciando fuori l’industria e il sistema delle imprese (buono e virtuoso), come pare voler fare il PD con la campagna di manifesti “Uscire dalla Crisi - Fiducia nell’impresa”.

    È un dato di fatto che le imprese, specie le grandi corporation multinazionali, non sono state estranee alla finanziarizzazione dell’economia, con la supervalutazione della crescita in borsa rispetto a piani d’investimento pluriennali e in una remunerazione dei manager in base agli stessi criteri dei bonus per gli operatori finanziari.

    Infine, non è stata la finanza, ma l’industria a comprimere nell’arco di un ventennio la parte del PIL destinata a stipendi e salari rispetto a profitti e rendite e a delocalizzare con l’unico criterio dei bassi salari, anche quando l’incidenza degli stessi sul prodotto finale diminuiva.

    Se a sinistra non si apre un dibattito e un confronto su questi punti non si va da nessuna parte e non si recuperano i consensi perduti.

(1/3. Continua)

mercoledì 9 marzo 2011

AMBURGO 2011 - RISCATTO SOCIALDEMOCRATICO ?

PERISCOPIO SOCIALISTA 


NELLA CITTÀ-STATO ANSEATICA LA SPD HA CONQUISTATO LA MAGGIORANZA ASSOLUTA DEI SEGGI

di Felice Besostri
Portavoce del Gruppo di Volpedo

Sulla carta la vittoria della SPD nelle elezioni  della Città-Stato di Amburgo è stata spettacolare: con il 48,4% dei voti ha conquistato 62 seggi, cioè la maggioranza assoluta dei 121 seggi del parlamento del Land. Ma questo voto rappresenta un’inversione di tendenza rispetto alle elezioni federali del 2009 o i fattori locali sono stati determinanti e perciò irripetibili?

    In questo 2011 Amburgo è stata la prima elezione in un Land, cui ne seguiranno altre 6 e precisamente la Sassonia Anhalt il 20/3, la Renania Palatinato e il Baden Württenberg il 27/3, Brema il 22/5, il Meklenburg Vorpommern il 4/9 e, infine, Berlino il 18/9. I governi di questi Länder  sono variegati Sassonia A. e Meklenburg V. sono retti da SPD-CDU, il Baden W. è l’unico omogeneo al governo federale CDU-FDP, Brema è rosso verde SPD-Grünen, la Renania Palatinato è un monocolore SPD e Berlino SPD-Die Linke merita il soprannome la Rossa  . I Ministerpresident sono 4 della SPD e 2 CDU, quindi sono i socialdemocratici a correre più rischi. Soltanto in due Land ( Brema e Berlino) sono rappresentati tutti e cinque i partiti presenti nel Bundestag. SPD e Die Linke potrebbero governare la Sassonia Anhalt con 49 seggi su 97, ma in forza delle regole non scritte la presidenza spetterebbe alla Linke, come partito di maggioranza relativa, benché quest’ultima nella Turingia fosse stata disposta a rinunciare alla Presidenza pur avendo 27 seggi rispetto ai 18 della SPD.  SPD, Verdi e Die Linke, secondo i sondaggi avrebbero recuperato la maggioranza assoluta, di cui teoricamente godevano nel Bundestag eletto nel 2005: i numeri non fanno da soli la politica. Nuovi rapporti a sinistra saranno possibili soltanto se e saranno superati i rancori legati alla divisione della Germania e all’unificazione forzata di socialdemocratici e comunisti nella SED, che paradossalmente ha favorito dopo il crollo del comunismo i partiti lasciati artificialmente in vita nella DDR, a cominciare dai democratici cristiani.

    Tornando ad Amburgo, la SPD riconquista uno dei suoi bastioni dove per un decennio aveva quasi ininterrottamente governato con la maggioranza assoluta e comunque detenendo la presidenza fino al 2001. Amburgo era stata anche la prima coalizione verde-nera, che sembrava aprire la strada ad una formula tripartita chiamata Jamaica, dai colori di quella bandiera verde, gialla e nera, anche a livello federale. Nella Saar i Verdi preferirono un’alleanza con la CDU e la FDP, piuttosto che una maggioranza rosso, rosso –verde.  I risultati delle elezioni amburghesi sono spesso una sorpresa tanto variano da elezione ad elezione, pur quando si svolgono nello stesso anno. Particolarmente interessanti si mostrano i dati dei Verdi,  che proprio ad Amburgo son passati dal 20, 5  delle Europee all’11,2% di quest’anno.    In termini percentuali il voto della Linke è molto più stabile, intorno al 6,4/6,7% dalle elezioni del Land 2008 alle Europee 2009 e a quelle del Land 2011: unica eccezione è rappresentata dal quasi raddoppio  con lo 11,2% delle elezioni federali del 2009. Un risultato derivante dal crollo SPD. Lo spostamento a sinistra si è verificato con queste ultime elezioni SPD e Linke da sole hanno il 54,8% dei voti, mentre nelle precedenti elezioni, qui considerate, l’apporto dei Verdi per raggiungere la maggioranza assoluta era determinante.

    La particolarità di Amburgo, come bastione rosso va tenuta in debito conto se si pensa che tra il 1957 e il 1970 la SPD da sola veleggiava tra un minimo del 53,9% fino ad un massimo del 59% e che era uno dei pochi Land dove il KPD (Partito Comunista Tedesco) superava agevolmente la soglia del 5% ( 10% nel 1946 e 7,4% nel 1949). Una prognosi sulle tendenze future per le prossime elezioni di Land non è possibile, per tre ragioni maggiori :1) le formule eterogenee di governo negli altri Länder 2) la bassa percentuale di votanti di Amburgo in una elezione di Land 57,8% 3) la SPD ad Amburgo sempre sopra alla media nazionale, anche negli anni peggiori, Europee e federali 2009 . Si può concludere che i fattori locali sono stati preminenti, in particolare la punizione della CDU  passata dal 42,6% con 56 seggi del 2008 al 21,9% e 28 seggi del 2011, pur tenendo conto che le percentuali della CDU nel Land non corrispondevano già più a quelle Europee (29,7%) e federali (27,8%) di appena un anno dopo. Ultima considerazione si trattava di elezioni anticipate, fatto rarissimo in Germania e non apprezzato dagli elettori: il desiderio di stabilità porta a trovare formule di governo eterogenee e spesso incomprensibili in una nostra logica politica, ad esempio le Grandi Coalizioni CDU-SPD.

    Il segnale è comunque positivo, a sinistra direi che si dovrebbe prestare attenzione maggiore alle altre elezioni anticipate, quelle del 25 febbraio nella Repubblica di Irlanda. Sarà, infatti, il principale partito d’opposizione irlandese, il Fine Gael, a guidare il prossimo governo, ma senza la maggioranza assoluta, secondo gli exit poll diffusi dalla RTE, la televisione di Stato. Il partito di centro-destra avrebbe il 36,1% dei voti di prima preferenza in base al sistema di rappresentanza proporzionale in vigore in Irlanda. Sarebbe il miglior risultato dal 1982 per il partito guidato da Enda Kenny, anche se al di sotto delle aspettative di vittoria record. Al contrario, la coalizione Fianna Fail che ha guidato il paese per 21 degli ultimi 24 anni, sarebbe ferma al 15,1% dei voti: il suo peggior risultato di sempre. Al momento lo spoglio è ancora in corso e i numeri ufficiali saranno forniti con un certo lasso di tempo, a causa del complicato sistema di voto irladense del Voto Singolo Trasferibile. Nel passato i sondaggi sulle dichiarazioni di voto sono sempre stati piuttosto meticolosi in occasione di elezioni politiche in Eire.  Se gli exit polls troveranno conferma, il Fine Gael dovrà quasi certamente allearsi coi laburisti, arrivati secondi con il 20,5%(praticamente un raddoppio, la miglior prestazione di sempre), per formare un governo di coalizione.

    Come quelle islandesi del 2009, conclusesi con un’eclatante vittoria di sinistra,  son state elezioni sulle misure di risanamento finanziario imposte dalla crisi. Dopo l’Islanda l’Irlanda rifiuta di pagare per una crisi di cui sono responsabili la finanza e le banche. Il deficit è stato provocato dai salvataggi degli istituti di credito soprattutto per garantire i loro creditori, banche britanniche e tedesche in primo luogo. I fondi UE a questo son serviti. Per tutto ringraziamento il sistema finanziario ha cominciato a scommettere contro la tenuta del debito pubblico irlandese. Ora i nodi giungono al pettine vale di più il responso democratico delle urne o la volontà dei creditori? Dalla risposta dipendono i rapporti tra capitalismo e democrazia. [27 febbraio 2011]   

giovedì 3 marzo 2011

LEGGE ELETORALE E SCELTE POLITICHE

PERISCOPIO SOCIALISTA 

Speriamo in "un giudice a Berlino" che avesse finalmente il coraggio civile di rinviare il "porcellum" alla Corte Costituzionale. Questo giudice potrebbe esserci, non a Berlino e nemmeno a Strasburgo, dove pure pende un ricorso, ma a Milano. E potrebbe decidere in tempi rapidi. La discussione in udienza pubblica è fissata per il 16 marzo 2011. Inizio di una nuova era o ritorno alla Prima repubblica?

di Felice Besostri

Tutti i ragionamenti politici sono destinati a cadere di fronte alla logica di una legge elettorale, votata formalmente dalla maggioranza (ma la cui filiazione culturale è toscana) e che nei principi (soglia di accesso e premio di maggioranza, cioè bipolarista con tendenza bipartitica) è veltroniana.

    Walter l'ha usata scientificamente per distruggere l'area riformista e di sinistra. C'è quasi riuscito. Ma il successo della parte destruens non ha avuto lo stesso esito in quella construens, perché l’amalgama nel PD non è riuscito. Così, il leaderismo fondato sui bagni di folla delle primarie si è rovesciato contro il PD appena le primarie diventano minimamente competitive. Finché il candidato è interno, ce ne sono più di uno, se è un esterno (per es. Boeri a Milano) non mobilita il partito.

    Vendola si è accorto del vuoto e si è reso interprete di pulsioni di sinistra del popolo delle primarie, che rappresenta una parte dell'elettorato, ma non tutto l'elettorato. L'OPA sulle primarie, però, può funzionare soltanto se le elezioni sono anticipate, anzi imminenti, ma rivela tutte le contraddizioni quando si tratta di passare dalla vittoria alle primarie alla vittoria nelle urne vere.

    Se l'alleanza PdL-Lega, anche dopo la defezione di Fini, restasse il blocco di maggioranza relativa, a questo spetterebbe il premio di maggioranza del 55% dei seggi alla Camera dei Deputati (a meno che non riesca l'Union sacré o, con terminologia antifascista, il CLN).

    Tuttavia, la legge elettorale richiede che una coalizione di liste debba non soltanto avere un programma comune, ma anche un capo della coalizione. In violazione dell'art. 92 della Costituzione viene imposto un candidato premier eletto dal popolo. Sui simboli di liste, non in tutte per fortuna, appare un nome con la qualifica di “presidente”.

    Qui la forma di governo parlamentare delineato dalla nostra Costituzione è stato stravolto da una legge elettorale, cioè ordinaria. Tutto sommato, il golpe era riuscito senza colpo ferire. Avete sentito di mobilitazioni per l'abrogazione almeno del premio di maggioranza, a parte un recente conato del PSI?

    Al contrario, si sono raccolte le firme per i referendum Guzzetta, che assegnava il premio di maggioranza non più alla coalizione, ma addirittura alla lista di maggioranza relativa. Ma proprio in sede di ammissibilità dei referendum elettorale la Corte Costituzionale ha lanciato il suo avvertimento con le sentenze n. 15 e 16 del 2008. Ma è scattata la protezione dell'ordine giudiziario, che ha deciso che le leggi elettorali per il Parlamento nazionale non sarebbero soggette al controllo di costituzionalità perché l'unico organo competente sarebbero le Giunte delle elezioni delle Camere. . . elette con la legge di sospetta costituzionalità, a elezioni avvenute!

    Veniamo al CLN. Per vincere deve avere un capo. Se questi sarà Casini, Montezemolo, Mario Monti (ci manca solo Marchionne) oppure, sull’altro versante, Vendola o Saviano, ebbene allora non si farà il pieno dei voti.

    Conclusione: o non si vota con questa legge elettorale ovvero bisogna usarne strumentalmente le particolarità (uso parziale e alternativo). Ma ciò richiederebbe una spregiudicatezza disinteressata, cioè una qualità non diffusa nella nostra classe politica.

    In tal caso si dovrebbe individuare un capo della coalizione non candidato/a al Parlamento, che non metta il nome su nessuna lista e che dichiari di non essere candidato/a alla presidenza del Consiglio, perché ama e rispetta la Costituzione nonché le prerogative del Presidente della Repubblica, che pour cause è quel galantuomo di Giorgio Napolitano. Se questo capo della coalizione fosse una donna, ancora meglio, e una casalinga di Voghera sarebbe il massimo.

    L'altra soluzione starebbe, invece, in un giudice avesse finalmente il coraggio civile di rinviare la legge elettorale alla Corte Costituzionale. Questo giudice potrebbe esserci, non a Berlino e nemmeno a Strasburgo, dove pure pende un ricorso contro la legge elettorale italiana, ma a Milano. E potrà decidere in tempi rapidi.

    La discussione in udienza pubblica è fissata per il 16 marzo 2011.
    Se fosse dichiarato incostituzionale il premio di maggioranza, si potranno allora costruire coalizioni tra affini, facendo attenzione soltanto alle soglie di accesso, che al Senato restano elevate a livello regionale. E dopo le elezioni si potranno formare governi di coalizione.

    Torneremmo alla Prima Repubblica? E' un rischio. Ma meno pericoloso che vivere in questa permanente agonia della Seconda.

    Dice un proverbio turco: Le notti sono incinte, ma il giorno che partoriranno, nessuno lo conosce.