lunedì 10 novembre 2008

Al cavalier poeta cui manca un verso

Osservazioni sulla crisi della democrazia italiana
di PAOLO BAGNOLI *)
Chi ritenesse che eventuali osservazioni sulla crisi della democrazia italiana fossero esagerate è pregato di andarsi a vedere quanto Silvio Berlusconi ha dichiarato alcuni giorni or sono giustificando il cambio della legge per le elezioni europee; un’operazione che, grazie all’intervento deciso ed autorevole del presidente Napolitano,sembra destinata a rientrare. Sì,grazie all’intervento del presidente Napolitano pur se, all’interno della maggioranza forti erano i mal di pancia di An.

Walter Veltroni stava al gioco interpretando una parte e falsificando il copione: a differenza di coloro che stanno con i frati e zappano l’orto, lui stava con l’orto e zappava i frati! Infatti: attestarsi sulla linea dello sbarramento al 4 e non al 5% altro non era che la solita furbata – invero un po’ di basso livello – cui, se ogni italiano ha difficoltà a rinunciare, figuriamoci chi è investito di una così grande responsabilità ed esposizione mediatica. Ancora una volta, puntuale come un rimorso, è venuta conferma che l’opposizione del partito democratico non è alternativa vera al blocco berlusconiano, quasi due facce di un medesimo irrisolto problema.

Ma torniamo a Berlusconi. Citiamo dal "Corriere della Sera" (mercoledì 29 ottobre,p.13), articolo sul sistema di voto per le prossime europee.Dice il presidente del consiglio:"Voglio che in Europa ci vada gente altamente qualificata e che in tutte le commissioni ci siano professionisti di ciascuna materia. Solo scegliendo noi chi va in lista saremo sicuri di una rappresentanza capace di difendere i nostri interessi." Questo perché con le attuali preferenze "sarebbe eletto chi è più capace di farsi promozione e si tornerebbe al finanziamento della politica, il contrario di una politica limpida e trasparente. Si tornerebbe alla stagione precedente."

Il giornalista domanda che cosa succederebbe se eventuali divisioni nella maggioranza facessero mancare i numeri per approvare la riforma. No,per il presidente non può accadere;infatti,afferma: "Non mi risulta,credo che la maggioranza tenga,ma se così fosse non mi strapperò i capelli." Già,ci viene da dire a caldo: con quanto gli sono costati…! Così parla il presidente del consiglio che,forse non è male ricordarlo,è una figura a rilevanza costituzionale. Ma per Berlusconi Italia o Milan – la squadra di calcio di cui è pure presidente – fan lo stesso. Si esime,chi ha la pazienza di leggerci dal mostrare ilarità, perché il quadro è fuori controllo ed il corto circuito può essere più prossimo di quanto non si creda. Berlusconi "vuole"; è ovvio, ma cosa?

Naturalmente "gente qualificata": oh,che bravo! Ma ragioniamo. Il suo volere è l’imperativo autoritativo di chi concepisce lo spazio pubblico come roba propria, con mentalità non solo aziendalista, ma tipicamente padronale; secondo parametri che coniughino rendita e profitto;lui vuole,perché lui è l’investitore. Questo, tuttavia, lo può fare a Mediaset oppure al Milan, il Paese non è né suo né di nessuno,ma appartiene in eguale misura a lui come a tutti gli altri italiani.Sono osservazioni banali,ma se siamo arrivati a doverle rimettere in campo è perché ci troviamo ad un punto terribile di rottura costituzionale. I principi che non si inverano, infatti, cessano di essere tali e l’Italia,lungo questo parametro di involuzione democratica, è già un pezzo avanti.Passiamo oltre.

Dopo il "volere", la ragione del suo perché:nelle commissioni devono esserci professionisti di ciascuna materia.Spunta prepotente il presidente di club calcistico:non si può far giocare all’ala sinistra un centrale portato ad operare sulla destra,così come un centrocampista guai se finisce tra i pali. Il teorizzare la tecnicità della funzione di rappresentanza politica è una delle caratteristiche che accompagnano la fine del senso democratico; la riduzione dei sistemi politici fondati sulla libertà solo ad una funzione legata alla mera gestione: lui pensa per tutti. E ai vari settori, poi, sovrintendono dei funzionari cui spetta solo attuare quanto viene loro indicato. E’ il classico schema degli stati comunisti ove la politica è diretta dal segretario del partito, il capo del governo è un funzionario più che fidato ed i ministri sono solo tecnici dei vari settori.

Però anche a Berlusconi, come a tutti i poeti, manca un verso. Perchè aspettare le elezioni europee per invocare la necessità di gente qualificata? Il governo sarebbe stata un’occasione unica, ma di gente "qualificata" – nel senso berlusconiano del termine, s’intende – se ne vede poca e quella poca che vi è si qualifica più per l’esercizio della furbizia che per la incontestabile preparazione a ricoprire il ruolo assegnato. Ogni riferimento a Giulio Tremonti ed a Maurizio Sacconi è, credeteci, del tutto causale.

Ma come la mettiamo con Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini; già,come la mettiamo!? Al confronto, Roberto Maroni ed Ignazio La Russa – molto felice e realizzato, peraltro, quando, con paramenti militari, lancia lo sguardo acuto e penetrante sulle truppe schierate – sono, oggettivamente, simboli di una politica che assomiglia ben più, rispetto ai loro colleghi – uno tanto squittante, quanto l’altra silente - al suo senso concettuale e fattuale.

Tutto l’annunciato fervore di volontarismo autoritativo e di efficientismo qualificato a livello europeo è svanito,in men che non si dica, dopo l’intervento di Napolitano i cui rilievi hanno indotto la maggioranza a non forzare la mano e rimandare il disegno di legge sulle europee in commissione ove,si capisce, finirà per insabbiarsi definitivamente.

Berlusconi e la sua corte hanno subito detto che a loro sta bene così poiché i problemi non sono loro,ma dell’opposizione. E’ anche difficile rispondere con l’uso della ragione a simili vicende,ma bisogna sforzarsi di farlo,di non stancarsi,di perseverare. Oggi è sempre più evidente come stia via via crescendo un quadro che mette rischio la legalità repubblicana e non può essere certo Di Pietro, con il proprio giacobinismo giustizialista, a porvi rimedio.

E anche qui vorremmo che Veltroni ci spiegasse – la domanda è retorica fino ad un certo punto – che una presenza chiaramente profilata a destra in maniera radicale,si trovi a rappresentare il luogo sinistro dello schieramento parlamentare. Basterebbe solo questo per capire il punto cui siamo arrivati;ma,di sicuro, il cammino prosegue destinato,via via, a caricarsi di altre pesanti e preoccupanti gravità.

*) Ordinario Dottrine Politiche all'Università di Firenze, direttore dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana, già senatore della Repubblica nelle fila del PSI

Obama OBAMA

di Felice Besostri
Alle 6 del mattino del 5 novembre ore italiane Obama non aveva ancora pronunciato il suo discorso di investitura pur avendo raggiunto la maggioranza dei grandi elettori.

L’elezione del Presidente degli Stati Uniti presenta una particolarità, che non sempre è capita, cioè non è una elezione diretta, bensì indiretta. Si elegge il Presidente degli Stati Uniti e non il Presidente dei cittadini statunitensi: gli USA sono uno stato federale e perciò il Presidente deve rappresentare la maggioranza degli Stati.

La Svizzera, che è pure uno stato federale, per i referendum richiede una doppia maggioranza del popolo e dei Cantoni.
Se così non fosse, le elezioni si deciderebbero in un pugno di Stati: California, Texas, New York, Florida, Pensilvania, Illinois e Ohio, cioè sette stati su cinquanta.

Il meccanismo dei grandi elettori favorisce gli stati piccoli perché nessuno stato, quale che sia la sua popolazione, può avere meno di tre grandi elettori.

I grandi elettori sono in numero pari ai rappresentanti dello stato federato nel Congresso degli Stati Uniti, cioè alla somma di senatori e deputati.

I senatori sono sempre due per ogni stato e, quindi, gli stati piccoli pesano proporzionalmente di più.
Teoricamente i grandi elettori non sono obbligati a votare per il candidato per il quale si sono dichiarati, ma grandi elettori infedeli si calcolano in una decina nella storia delle elezioni presidenziali.

I grandi elettori potrebbero giocare un ruolo solo in caso di più di due candidati che conquistino grandi elettori, in modo che nessuno dei candidati raggiunga il quorum di 270 grandi elettori.

I grandi elettori sono 538, perché si devono aggiungere alla somma di deputati e senatori i tre grandi elettori del distretto federale che comprende la città capitale, Washington.

L’impresa di Obama è stata notevole perché la distribuzione demografica tra il 2000 e il 2008 ha penalizzato gli stati tradizionalmente democratici, ad eccezione della California. New York, Pensilvania, Illinois hanno perso due grandi elettori ciascuno, mentre sono aumentati delle stesse unità in Texas e in Florida.

La conquista di stati tradizionalmente repubblicani era essenziale, altrimenti poteva ripetersi la beffa delle presidenziali del 2000, con Gore perdente benché avesse un paio di milioni di voti in più. Allora fu decisiva la Florida, con una storia di brogli mai chiariti.

Obama è giovane, parla bene ed è un meticcio, questo basta per renderlo simpatico a chi non coltiva pregiudizi razziali, per di più si è impegnato nel volontariato: il sostegno dei progressisti è assicurato.

La sua nomination alla Convention dei Democrats sono un segno di vitalità del sistema politico statunitense.
Dal nostro osservatorio italiano con un primo ministro ultrasettantenne e la sua ombra, a capo del PD, sulla piazza da trent’anni, sconcerta che a 47 anni si possa diventare Presidente degli Stati Uniti, essendo per di più figlio di un immigrato africano.

Non solo, la sua esperienza politica come senatore risale al 2004: Clinton diventò Presidente nel 1992 ancora più giovane, a 46 anni, ma era già stato, quasi ininterrottamente, Governatore dell’Arkansas dal 1978.

La sua elezione significa che il fattore razziale non ha giocato contro di lui, se non in alcuni stati, ma se non ci fosse stata la crisi finanziaria di Wall Street e dintorni, le sue possibilità di vittoria sarebbero state ridotte.

Col voto si può esprimere adesione ad un candidato o ad un partito, ma anche punirli: con la popolarità di G.W. Bush ridotta al 30% e l’opinione corrente della responsabilità dell’amministrazione federale nella crisi, ampi settori della popolazione hanno voluto punire i repubblicani.

La filosofia repubblicana di mercati liberi e sregolati è responsabile della bolla speculativa e quindi del suo scoppio. Durante i due mandati di Bush si sono alleggerite le imposte ai più ricchi, ma i disastri finanziari sono stati garantiti dal bilancio federale: le vittime della crisi hanno pagato due volte, come detentori di titoli od immobili con minore valore e come soggetti tassati.

La crisi ha impegnato il bilancio federale e perciò dal 20 gennaio 2009 Obama non avrà ampi spazi di manovra. I democratici hanno guadagnato seggi alla Camera dei Rappresentanti ed al Senato ma non in numero sufficiente per bloccare l’agenda parlamentare dando la precedenza ai loro progetti di legge.

Occorre guardare con fiducia allo scenario, che si apre con l’elezione di Obama, anche se non bisogna farsi soverchie illusioni che si possa rovesciare di colpo le politiche finora perseguite, in Irak ed Afghanistan in primo luogo. Last but not least, la campagna elettorale di Obama è stata molto costosa. Ha raccolto molti contributi di persone fisiche, ma senza i sostanziosi contributi di imprese e finanziarie non avrebbe potuto avere l’ampia copertura televisiva per i suoi spot.

Il rapporto tra finanziamenti privati e favori pubblici non è meccanico e non sempre raggiunge la spudoratezza dei favori fatti dai Bush, padre e figlio, ai petrolieri, ma un condizionamento ci sarà: quello, più che l’esperienza internazionale, sarà il vero banco di prova per Barack Hussein Obama.

P.S.: Mi sento colto da una punta d'invidia, soprattutto se penso al nostro Paese. Personalmente è dal 1961 che vorrei (e mi impegno attivamente per) una società più libera e più giusta, in sintesi: socialista e democratica. Chissà se posso avere anch’io un sogno, vivendo in Italia e non negli USA?