martedì 28 settembre 2010

ECLISSI DELLA SOCIALDEMOCRAZIA O CRISI DEL SISTEMA SVEDESE ?

PERISCOPIO SOCIALISTA 

Le elezioni svedesi avrebbero potuto segnare un’inversione di tendenza  nelle sconfitte elettorali delle socialdemocrazie e della sinistra, due fatti tra loro indissolubili. Così non è stato. Ma malgrado ciò, la sinistra in Svezia sta meglio di quella italiana.

di Felice Besostri

La sconfitta della socialdemocrazia svedese, e con essa della coalizione rosso-verde con Miljöpartiet de Gröna (Partito dell’ambiente-I Verdi) e Vänsterpartiet (Partito della Sinistra) era stata preannunciata dai sondaggi dal giugno di quest’anno (48,1% vs 45,4).

    A partire dal febbraio 2007 l’opposizione rosso-verde era sempre rimasta sopra il 50% , fino a toccare l’apice nel febbraio 2008 con il 56% contro il 38,8% dell’alleanza borghese: la maggioranza assoluta delle intenzioni di voto è stata persa soltanto con le rilevazioni del  maggio 2009 (48%). Tuttavia il vantaggio è stato mantenuto fino al maggio 2010 con il 47,6% contro il 46,8%.

    La perdita di competitività della coalizione rosso-verde è da attribuire quasi esclusivamente a perdite di consenso dei socialdemocratici che dal novembre 2008 sono scesi sotto il 43% fino al 28,2% dei sondaggi del settembre 2010 alla vigilia delle elezioni. Una correlazione vi è indubbiamente con l’aumento di popolarità dei Democratici Svedesi, il partito della destra radicale, che a partire dall’agosto 2009 ha stabilmente superato la soglia del 4%.

    Pur in assenza di dati sui flussi elettorali si può arguire che i Democratici Svedesi abbiano sottratto voti anche, forse soprattutto, ai socialdemocratici, pur incidendo in termini di seggi anche sull’alleanza borghese. Se non avessero superato la soglia, l’alleanza borghese avrebbe tranquillamente ottenuto con il 49,3% la maggioranza assoluta dei seggi, come nel 2006 con il 48,26%.

Gli elementi di novità dei risultati svedesi sono almeno due: per la prima volta i socialdemocratici perdono il primato di più grande partito a favore dei Moderati e i borghesi vincono due elezioni politiche generali a fila.

    Vi è una terza novità, che non è la formazione di un governo di minoranza, circostanza più volte verificatesi con governi socialdemocratici, ma la comparsa di un terzo polo non assimilabile a maggioranze parlamentari. Il sistema politico svedese è sempre stato pluripartitico, ma rigorosamente bipolare con un partito socialdemocratico egemone, cui di contrapponeva un’alleanza borghese, composta da quattro partiti, non sempre sulla stessa lunghezza d’onda, il che spiega il fatto, che, quando vincevano non ottenevano la riconferma alle elezioni successive.

    La crisi della socialdemocrazia appare strutturale, cioè la perdita progressiva di elettorato giovanile.  Un fatto che si era già rivelao nelle elezioni europee del 2009 con l’exploit del Partito Pirata, successo non ripetuto in queste elezioni nazionali. Negli anni di governo dei borghesi si sono ben guardati dallo smantellare lo stato sociale nei suoi assetti fondamentali, secondo il loro programma per le elezioni del 2002 quando furono sonoramente sconfitti da un 52,9% della coalizione rosso-verde, ma hanno introdotto liberalizzazioni del mercato del lavoro, che hanno colpito i giovani. Questo fatto ha comportato che non era più incentivata la iscrizione ai sindacati, con le quote non più deducibili dal reddito e quindi una perdita di affiliati al sindacato LO, tradizionale bacino di raccolta dell’elettorato socialdemocratico.  Si deve ritenere questo fatto più rilevante dello scarso sex-political appeal della leader socialdemocratica Mona Sahlin, definita fredda come un agente del KGB. 

    Il partito socialdemocratico ha un problema di leadership  a partire dall’assassinio di Olaf Palme nel !986 e soprattutto di quello della popolarissima Anna Lindh nel 2003, ma non siamo ancora in quel paese ad una personalizzazione della politica, cui ci ha abituato Berlusconi e alla quale ci si è colpevolmente adattati, se non a sinistra, nel più grande partito di opposizione, il PD.

    Un altro tema che ha favorito l’ascesa dei Democratici Svedesi è la questione dell’immigrazione, proposta come tema principale soltanto dal nuovo partito. Nei paesi nordici i partiti conservatori hanno un approccio non ideologico e in Svezia, come in Finlandia, hanno fatto leggi che facilitano l’immigrazione per motivi economici, mentre i socialdemocratici erano aperti quasi esclusivamente alla concessione di asilo politico. La ragione è semplice i lavoratori stranieri non integrati nella società svedese costituiscono un efficace pressione per il contenimento delle rivendicazioni salariali e quindi del ruolo del sindacato.

    La Svezia dimostra come la stabilità del sistema politico non dipenda da leggi elettorali maggioritarie, come si è cercato di far credere e di imporre con artifizi elettorali in Italia, ma dalla cultura politica: per esempio, in Svezia è inconcepibile che in un voto di sfiducia si sommino voti di partiti con programmi opposti, come invece accadde con il primo governo Prodi. L’alleanza borghese ha quindi la concreta possibilità di costituire un governo di minoranza con i suoi 172 seggi su 349 del  Riksdag senza alcun bisogno di cercare consensi in parlamento a differenza dei governi di minoranza socialdemocratici.

    Un altro insegnamento è l’incapacità di partiti all’opposizione di capitalizzare le difficoltà dei governi in carica, in questo l’Italia può essere maestra, tuttavia un partito di sinistra non può inseguire pulsioni razziste e xenofobe, perché perderebbe ancora più voti. La società svedese è fondamentalmente democratica e, come ricorda il leader dei Moderati Gustav Blix( Il Riformista, 21 settembre 2010), la percentuale di cittadini favorevoli ad una stretta sull’immigrazione” salita per dieci- quindici anni” è in calo.  Tuttavia sono significative le aperture verso i Verdi, che garantirebbero una solida maggioranza assoluta. La prima risposta è stata negativa, non siamo nell’Italia dei parlamentari responsabili e perciò acquistabili, ma non si deve dimenticare che i Verdi, in Europa, non sono stabilmente collocati a sinistra. In Finlandia sono decisivi per il governo conservatore e in Germania governano con la CDU in alcuni Laender. 

    Le elezioni svedesi potevano segnare un’inversione di tendenza  nelle sconfitte elettorali delle socialdemocrazie e della sinistra, due fatti tra loro indissolubili, ma come mi ha fatto notare un compagno finlandese, Hannu Vesa, malgrado la sconfitta la sinistra in Svezia sta meglio di quella italiana e del suo Paese.    

mercoledì 22 settembre 2010

Epinay e la situazione italiana oggi

PERISCOPIO SOCIALISTA 
Riceviamo dal Gruppo di Volpedo
(http://www.gruppodivolpedo.it/)
e volentieri pubblichiamo


INTERVENTO AL III CONVEGNO COORDINAMENTO DEI CIRCOLI SOCIALISTI "GRUPPO DI VOLPEDO" 11.9.2010

di  Alfonso Gianni
(Comitato Scientifico di Sinistra Ecologia e Libertà)

Care compagne e cari compagni, innanzitutto voglio ringraziarvi per l’invito rivoltomi a partecipare a questo vostro importante incontro. Invito graditissimo. E colgo anche l’occasione per portarvi i saluti e i sensi della sua partecipazione da parte di Nichi Vendola che oggi non ha potuto essere fisicamente presente tra noi.

   Vorrei soffermarmi soltanto su quello che Epinay – dove nel giugno del 1971 si tenne il celebre congresso di unificazione dei socialisti - ha rappresentato nell’immaginario collettivo e nel dibattito effettivo della sinistra radicale degli anni settanta e ottanta nel nostro paese.. L’eco di quel congresso, che io ricordi, giunse solo qualche anno dopo la sua effettuazione. Direi verso la fine degli anni settanta e generò un dibattito molto intenso.. Quel dibattito si inserì alla perfezione nella critica da sinistra alla segreteria Craxi da un lato e alla politica di unità nazionale, che privilegiava il rapporto con la Democrazia Cristiana, praticata dal Partito Comunista, dall’altro. La principale chiave di lettura con cui guardavamo a Epinay era dunque l’unità delle sinistre a sinistra. Era la possibilità attraverso questa unità di condurre prima un’efficace opposizione e poi di aprire anche le porte per un governo in cui le sinistre fossero protagoniste. Insomma per chi, come me, era di tradizione comunista e allora militava in una piccola, ma culturalmente influente, formazione come il Partito di unità proletaria per il comunismo – PdUP – guidato da Lucio Magri, Epinay rappresentava concretamente la possibilità di superare definitivamente la conventio ad escludendum nei confronti dei comunisti, senza dovere passare sotto il gioco dell’alleanza con la Democrazia cristiana. In effetti in Francia fu il programma comune firmato tra socialisti e comunisti che costruì quel background politico e culturale che portò Mitterrand alla vittoria nelle elezioni presidenziali e all’ingresso dello stesso Pcf al governo, pur dopo un consistente dimagrimento elettorale da parte di quest’ultimo. Lucio Magri fece spesso riferimento a Epinay nei suoi discorsi e nelle relazioni ai congressi del PdUP come esempio vincente di unità a sinistra. Su iniziativa del grande economista Claudio Napoleoni e dello stesso Lucio Magri nacque anche un centro di iniziativa politico-culturale per sostenere queste tesi, un think tank della sinistra radicale, si direbbe con il linguaggio di oggi. Tutto questo nostro sforzo non sortì grandi effetti, come era ovvio, data anche la nostra intrinseca debolezza. I due maggiori partiti della sinistra presero strade configgenti fra loro. Poi maturò la crisi della prima Repubblica. Cionondimeno questo ricordo testimonia dell’influenza che Epinay ebbe sulla sinistra italiana. Francamente non mi sovviene, in tempi successivi, una capacità analoga da parte delle forze della sinistra francese di ergersi ad esempio per le sinistre europee, fatta eccezione per la realizzazione della legge sulle 35 ore, quindi su una questione che per quanto importante può comunque dirsi parziale e specifica.

    Ma l’attrazione della sinistra radicale italiana per Epinay non si limitò all’aspetto della unità delle sinistre. Se così fosse potremmo dire che Epinay appartiene definitivamente al passato. Sarebbe cioè privo di attualità. Infatti oggi in Italia più che porsi il compito dell’unità delle sinistre abbiamo il problema della ricostruzione di una sinistra. Di una sinistra senza aggettivi, poiché la storica divisione fra socialisti e comunisti, fra riformisti e rivoluzionari appartiene al novecento. Non ha più senso oggi. Oggi parlare di riformismo non si può fare senza specificare che cosa si intende, essendo una parola tanto abusata da essere stata svuotata. Allo stesso modo se si parla di rivoluzione si è costretti immediatamente a distinguersi dagli esiti infelici di molte rivoluzioni del XX secolo. In sostanza i grandi temi della finalità di una trasformazione sociale e dei modi per realizzarla si pongono davanti a tutti in termini innovati e quindi ancora da esplorare. Questo è il percorso che dobbiamo compiere e per farlo abbiamo sì bisogno di una consapevolezza critica del passato, ma non vogliamo chiedere abiure a nessuno. In altre parole quando dico che oggi, ripeto:oggi, non ha più senso la distinzione fra socialisti e comunisti, non chiedo a nessuno di parlare male di Turati o di Gramsci, di Kautsky o di Lenin, non pretendo che ci si penta del congresso di Livorno o della Seconda Internazionale. Anzi penso che, nei limiti di un atteggiamento critico e reso consapevole dagli eventi successivi, ognuno di noi può dirsi orgoglioso del proprio passato. Il problema è accettarlo come passato, non come eterno presente che si riproduce uguale a se stesso.

    Proprio per queste ultime considerazioni vi è un altro aspetto di Epinay che oggi torna attualissimo. Per spiegare di che si tratta faccio riferimento a un ricordo personale. Nella videoteca del parlamento europeo è visionabile un documento filmato del congresso di Epinay. Si vede a un certo punto, in una sala piena di delegati sovraeccitati e tutt’altro che disciplinati, alzarsi uno ieratico Mitterrand e invitare ad uscire della sala coloro che non accettano la discriminante anticapitalista! Oggi sembra quasi impossibile che una cosa del genere possa ripetersi. Eppure proprio qui sta l’attualità di Epinay. Naturalmente bisogna intendersi su cosa significhi anticapitalismo. Non comporta affatto il ritorno ai vecchi modelli di società socialista e comunista. Ma significa almeno che non si consideri il capitalismo come il tetto della crescita umana, come la fine della storia, come invece il neoliberismo trionfante dagli ottanta in poi ha cercato di farci credere. Come sappiamo quella convinzione è alla base di processi degenerativi della sinistra, che hanno portato alla nascita di teorie che ben poco si distinguono da quelle dominanti nella globalizzazione e che a tutti gli effetti possono essere chiamate social-liberiste, connotate cioè da un liberismo un po’ più attenuato. Do you remember Tony Blair? Un grande intellettuale socialista italiano, Giorgio Ruffolo, ha posto un titolo molto bello a uno dei suoi ultimi libri : “Il capitalismo ha i secoli contati”. Quindi il capitalismo non finirà presto, ma non è destinato a vivere in eterno. Bene io penso che la sinistra ricostruita e senza aggettivi debba partire da questa convinzione e quindi costruire la transizione verso una società senza sfruttamento e alienazione.

    Del resto questa crisi economica è sistemica. Non è soltanto la più grave dal 1929 ad oggi, ma mette in luce che i pilastri su cui il neoliberismo era fondato vacillano. Le basse retribuzioni, la precarizzazione del lavoro, la privatizzazione degli spazi pubblici  sono state le caratteristiche della globalizzazione neoliberista. Costruire una nuova società significa affrontare questi tre grandi problemi. Assieme a quello della democrazia, visto che il capitalismo moderno predilige sistemi a-democratici, nei quali i luoghi stessi del potere reale sono nascosti e sottratti alle istituzioni rappresentative, oltre che al potere di decisione popolare. Assieme al grande tema della salvaguardia del nostro pianeta dallo sfruttamento selvaggio e distruttivo operato dall’accelerazione dello sviluppo economico dominato dalla pura ricerca del profitto. Questa grande crisi non si concluderà con un ritorno allo stato di cose precedenti. Le forze dominanti cercano una via d’uscita che le mantenga in sella e la stanno trovando, in Europa in particolare, a destra, accentuando cioè il potere dell’impresa e lo smantellamento dello stato sociale. Mentre a livello mondiale è in corso una transizione egemonica, che vede diminuire il primato degli Usa e crescere il ruolo della Cina, che implementa un capitalismo non identico a quello classico, dove il ruolo dello stato è molto incisivo e sempre presente. Il capitalismo insomma cambia per sopravvivere a sé stesso. La sinistra invece deve cambiare la società per superare il capitalismo. 

    In questo quadro si inserisce la più misera vicenda italiana. Le destre si lacerano, ma a sinistra le cose non vanno meglio e si rischia così di perdere una straordinaria occasione per batterle. In questa situazione nessuna forza di sinistra da sola può sconfiggere Berlusconi e il berlusconismo. E’ necessaria una coalizione, che al di là delle innovazioni linguistiche, non può essere che di centro-sinistra.

    L’intenzione di inglobare anche forze di destra moderata in questa coalizione è illusoria  e politicamente sbagliata. Perché il berlusconismo può essere sconfitto solo spezzando la logica bipolare. Anche se non dipende da noi abbiamo tutto l’interesse che si formi un terzo polo. A noi spetta il compito di occuparci della ricostruzione della sinistra e della creazione di una solida coalizione di centrosinistra aperta alla società civile.

    Per questo sono decisive le primarie. Primarie di coalizione, non del Pd più qualche cespuglio sotto la sigla di un nuovo Ulivo. Per permettere ai cittadini di scegliere il candidato a premier e i candidati locali, ma soprattutto per ridare slancio partecipativo. Altrimenti la crisi della politica ci trascinerà verso il fondo. Altrimenti l’astensione punirà la sinistra. Una coalizione senza una partecipazione viva del suo popolo di riferimento nella scelta dei candidati e nella determinazione dei punti programmatici che la qualificano è destinata ad essere sconfitta. Non ci servono altre “gioiose macchine da guerra” che in realtà ci portano alla disfatta, ci serve una entusiastica e pacifica partecipazione popolare per costruire un’alternativa vincente al berlusconismo.