mercoledì 10 dicembre 2008

Di che people parliamo?

di Felice Besostri

La parola inglese people ha molteplici significati da “popolo” a “gente” e “persone”.
Non è indifferente come sarà tradotto in italiano il titolo del Manifesto del PSE per le elezioni europee 2009: “People First. A new direction for Europe”.

"Popolo" per un socialista con qualche nostalgia è l’unica traduzione accettabile: ma sento già le obiezioni “Ottocentesco!”

"Gente" è inaccettabile, dà l’idea di una massa amorfa ed indistinta, più adatta ad un movimento popular-qualunquista alla Giannini o alla Poujad.

"Persone" è già più rispettoso della dignità degli individui: è sancito in diverse espressioni costituzionali come dignità della persona umana. Rappresenta un compromesso accettabile tra individuale e collettivo, tra giustizia e libertà.

Non vorrei però trovarmi di fronte ad una traduzione che dica “Prima gli individui”.

lunedì 1 dicembre 2008

Socialismo europeo: Lotta su due fronti

Come si presenterà il PD alle europee? Tre gli scenari più gettonati: 1) Un patto federativo PD-PSE, 2) Sottoscrizione del manifesto eurosocialista da parte di esponenti diessini del PD e 3) Rottura tra PD e PSE. Tra pochi giorni sapremo quale via per Strasburgo imboccherà il partito di Veltroni, Rutelli, D'Alema e Fassino. Resta comunque sul tavolo il problema di quale assetto debba assumere il PSE come maggior espressione del socialismo democratico e laburista nel nostro continente.

di Felice Besostri
Ancora pochi giorni e sapremo come intende presentarsi il PD alle prossime elezioni europee. Tre sono gli scenari:1) la proposta di un patto federativo PD-PSE, 2) la sottoscrizione del programma-manifesto del PSE da parte di (autorevoli) esponenti del PD di provenienza DS e 3) la rottura tra PD e PSE. Se questo per l'Italia è la questione più rilevante, non dobbiamo dimenticare che anche le formazioni di sinistra devono chiarire quali rapporti intendano sviluppare con il socialismo europeo, di cui il PSE è la maggiore espressione.

Nelle varie proposte in campo, compresa quella di SD, il tema è evitato. Allo stato soltanto una formazione della sinistra è inequivocabilmente vincolata al PSE: il Partito Socialista. Una presenza del PSE in Italia dello 0,9% è a prima vista una debolezza del socialismo europeo, ma ancor di più è una debolezza della sinistra italiana, tagliata fuori dal maggior campo delle forze progressiste e di sinistra europee.

La debolezza della sinistra italiana è strutturale, poiché è dal secondo dopoguerra l'unica sinistra in Europa senza vocazione maggioritaria. Vocazione maggioritaria significa essere in grado di conquistare una maggioranza parlamentare sulla base della quale realizzare un proprio programma e di indicare un proprio esponente alla guida del governo. Le ragioni sono molteplici, compresa la divisione dell'Europa al tempo della guerra fredda e del confronto Usa-Urss, ma sopratutto sono interne alla sinistra e sostanzialmente derivanti dal fatto che l'Italia è l'unico paese d'Europa nel quale la divisione tra socialisti e comunisti ha avuto un peso politico anche dopo il venir meno delle ragioni ideologiche, che la hanno prodotta negli anni venti del secolo scorso. Nei paesi dell'Europa occidentale i partiti socialisti sono chiaramente egemoni a sinistra: una egemonia conquistata grazie al consenso elettorale in sistemi democratici.

In Europa orientale l'egemonia comunista era stata conquistata con le unificazioni forzate in Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia e Germania orientale. Tuttavia in Europa orientale la situazione si è modificata con il crollo del sistema sovietico. Ora, in quei paesi, c'è un partito egemone a sinistra, capace di giungere al potere in libere elezioni. Questi partiti aderenti in maggioranza al PSE ed all'Internazionale Socialista sono sostanzialmente derivati dalla trasformazione dei partiti comunisti con un apporto minoritario dell'esilio socialdemocratico. Dunque l'irriducibilità dell'antitesi tra comunismo e socialismo è una caratteristica solo italiana. Qui non interessa stabilire di chi sia la responsabilità, ciascuno ha la sua opinione, ma focalizzare l'attenzione su punto principale: è superabile? È necessario superarla? La mia convinzione è che sia possibile, ma soprattutto necessario, se vogliamo costruire anche in Italia una sinistra a vocazione maggioritaria. Questo è un compito prioritario per rispondere alle esigenze che emergono dalla società ed alle sfide della globalizzazione, aggravate dalla crisi dei mercati finanziari.

La prima base di intesa deve partire dalla risposta alla domanda, se ci sia tuttora un'attualità del socialismo in questo XXI^ secolo. Parlare di attualità del socialismo significa pensare che una società diversa da quella esistente sia non solo auspicabile, ma anche possibile. Significa porsi il problema della costruzione di un ordine democratico sovranazionale, come nuova dimensione dell'internazionalismo. E' vero che il movimento operaio ha realizzato le sue maggiori conquiste democratiche, economiche e sociali nell'ambito dello stato nazionale, tuttavia dovrebbe essere chiaro che la dimensione dello stato nazionale è inadeguata ad affrontare i problemi planetari. La costruzione di una dimensione sovranazionale pone, però, una sfida, quella di mantenere un ordinamento democratico e non di privilegiare soluzioni burocratiche e tecnocratiche, soggette alle pressioni dei gruppi di interesse.

Se questa è la sfida quale è la massa critica per realizzare gli obiettivi di una società più libera e più giusta? L'unione di tutte le forze progressiste e di sinistra, quindi, in Europa raccogliersi nell'ambito del socialismo europeo. Il socialismo europeo è un concetto più vasto del PSE, cioè di una determinata formazione organizzativa, che, sia detto con chiarezza, è inadeguata. Il PSE non è un partito sovranazionale o transnazionale, bensì una confederazione di partiti nazionali, anzi dei gruppi dirigenti dei partiti socialisti, socialdemocratici o laburisti nazionali. Quando i partiti del PSE detenevano ben 12 primi ministri su 15 paesi dell'Unione Europea, nessuno si è accorto che ci fosse una nuova fase in Europa, anzi è più facile che i partiti socialisti uniscano o quanto meno coordinino il loro agire quando sono all'opposizione. Se sono al potere prevalgono invece i contingenti interessi nazional-statuali.

La battaglia per condurre la maggioranza della sinistra italiana nell'alveo del socialismo europeo è quindi da fare su due fronti: quello interno alla sinistra per il suo rinnovamento/ aggiornamento e quello nei confronti del PSE per una sua riforma, il cui primo tassello è costituito dalla possibilità di aderire individualmente e direttamente, cioè senza passare dall'iscrizione ad uno dei partiti nazionali, membri del PSE.

lunedì 10 novembre 2008

Al cavalier poeta cui manca un verso

Osservazioni sulla crisi della democrazia italiana
di PAOLO BAGNOLI *)
Chi ritenesse che eventuali osservazioni sulla crisi della democrazia italiana fossero esagerate è pregato di andarsi a vedere quanto Silvio Berlusconi ha dichiarato alcuni giorni or sono giustificando il cambio della legge per le elezioni europee; un’operazione che, grazie all’intervento deciso ed autorevole del presidente Napolitano,sembra destinata a rientrare. Sì,grazie all’intervento del presidente Napolitano pur se, all’interno della maggioranza forti erano i mal di pancia di An.

Walter Veltroni stava al gioco interpretando una parte e falsificando il copione: a differenza di coloro che stanno con i frati e zappano l’orto, lui stava con l’orto e zappava i frati! Infatti: attestarsi sulla linea dello sbarramento al 4 e non al 5% altro non era che la solita furbata – invero un po’ di basso livello – cui, se ogni italiano ha difficoltà a rinunciare, figuriamoci chi è investito di una così grande responsabilità ed esposizione mediatica. Ancora una volta, puntuale come un rimorso, è venuta conferma che l’opposizione del partito democratico non è alternativa vera al blocco berlusconiano, quasi due facce di un medesimo irrisolto problema.

Ma torniamo a Berlusconi. Citiamo dal "Corriere della Sera" (mercoledì 29 ottobre,p.13), articolo sul sistema di voto per le prossime europee.Dice il presidente del consiglio:"Voglio che in Europa ci vada gente altamente qualificata e che in tutte le commissioni ci siano professionisti di ciascuna materia. Solo scegliendo noi chi va in lista saremo sicuri di una rappresentanza capace di difendere i nostri interessi." Questo perché con le attuali preferenze "sarebbe eletto chi è più capace di farsi promozione e si tornerebbe al finanziamento della politica, il contrario di una politica limpida e trasparente. Si tornerebbe alla stagione precedente."

Il giornalista domanda che cosa succederebbe se eventuali divisioni nella maggioranza facessero mancare i numeri per approvare la riforma. No,per il presidente non può accadere;infatti,afferma: "Non mi risulta,credo che la maggioranza tenga,ma se così fosse non mi strapperò i capelli." Già,ci viene da dire a caldo: con quanto gli sono costati…! Così parla il presidente del consiglio che,forse non è male ricordarlo,è una figura a rilevanza costituzionale. Ma per Berlusconi Italia o Milan – la squadra di calcio di cui è pure presidente – fan lo stesso. Si esime,chi ha la pazienza di leggerci dal mostrare ilarità, perché il quadro è fuori controllo ed il corto circuito può essere più prossimo di quanto non si creda. Berlusconi "vuole"; è ovvio, ma cosa?

Naturalmente "gente qualificata": oh,che bravo! Ma ragioniamo. Il suo volere è l’imperativo autoritativo di chi concepisce lo spazio pubblico come roba propria, con mentalità non solo aziendalista, ma tipicamente padronale; secondo parametri che coniughino rendita e profitto;lui vuole,perché lui è l’investitore. Questo, tuttavia, lo può fare a Mediaset oppure al Milan, il Paese non è né suo né di nessuno,ma appartiene in eguale misura a lui come a tutti gli altri italiani.Sono osservazioni banali,ma se siamo arrivati a doverle rimettere in campo è perché ci troviamo ad un punto terribile di rottura costituzionale. I principi che non si inverano, infatti, cessano di essere tali e l’Italia,lungo questo parametro di involuzione democratica, è già un pezzo avanti.Passiamo oltre.

Dopo il "volere", la ragione del suo perché:nelle commissioni devono esserci professionisti di ciascuna materia.Spunta prepotente il presidente di club calcistico:non si può far giocare all’ala sinistra un centrale portato ad operare sulla destra,così come un centrocampista guai se finisce tra i pali. Il teorizzare la tecnicità della funzione di rappresentanza politica è una delle caratteristiche che accompagnano la fine del senso democratico; la riduzione dei sistemi politici fondati sulla libertà solo ad una funzione legata alla mera gestione: lui pensa per tutti. E ai vari settori, poi, sovrintendono dei funzionari cui spetta solo attuare quanto viene loro indicato. E’ il classico schema degli stati comunisti ove la politica è diretta dal segretario del partito, il capo del governo è un funzionario più che fidato ed i ministri sono solo tecnici dei vari settori.

Però anche a Berlusconi, come a tutti i poeti, manca un verso. Perchè aspettare le elezioni europee per invocare la necessità di gente qualificata? Il governo sarebbe stata un’occasione unica, ma di gente "qualificata" – nel senso berlusconiano del termine, s’intende – se ne vede poca e quella poca che vi è si qualifica più per l’esercizio della furbizia che per la incontestabile preparazione a ricoprire il ruolo assegnato. Ogni riferimento a Giulio Tremonti ed a Maurizio Sacconi è, credeteci, del tutto causale.

Ma come la mettiamo con Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini; già,come la mettiamo!? Al confronto, Roberto Maroni ed Ignazio La Russa – molto felice e realizzato, peraltro, quando, con paramenti militari, lancia lo sguardo acuto e penetrante sulle truppe schierate – sono, oggettivamente, simboli di una politica che assomiglia ben più, rispetto ai loro colleghi – uno tanto squittante, quanto l’altra silente - al suo senso concettuale e fattuale.

Tutto l’annunciato fervore di volontarismo autoritativo e di efficientismo qualificato a livello europeo è svanito,in men che non si dica, dopo l’intervento di Napolitano i cui rilievi hanno indotto la maggioranza a non forzare la mano e rimandare il disegno di legge sulle europee in commissione ove,si capisce, finirà per insabbiarsi definitivamente.

Berlusconi e la sua corte hanno subito detto che a loro sta bene così poiché i problemi non sono loro,ma dell’opposizione. E’ anche difficile rispondere con l’uso della ragione a simili vicende,ma bisogna sforzarsi di farlo,di non stancarsi,di perseverare. Oggi è sempre più evidente come stia via via crescendo un quadro che mette rischio la legalità repubblicana e non può essere certo Di Pietro, con il proprio giacobinismo giustizialista, a porvi rimedio.

E anche qui vorremmo che Veltroni ci spiegasse – la domanda è retorica fino ad un certo punto – che una presenza chiaramente profilata a destra in maniera radicale,si trovi a rappresentare il luogo sinistro dello schieramento parlamentare. Basterebbe solo questo per capire il punto cui siamo arrivati;ma,di sicuro, il cammino prosegue destinato,via via, a caricarsi di altre pesanti e preoccupanti gravità.

*) Ordinario Dottrine Politiche all'Università di Firenze, direttore dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana, già senatore della Repubblica nelle fila del PSI

Obama OBAMA

di Felice Besostri
Alle 6 del mattino del 5 novembre ore italiane Obama non aveva ancora pronunciato il suo discorso di investitura pur avendo raggiunto la maggioranza dei grandi elettori.

L’elezione del Presidente degli Stati Uniti presenta una particolarità, che non sempre è capita, cioè non è una elezione diretta, bensì indiretta. Si elegge il Presidente degli Stati Uniti e non il Presidente dei cittadini statunitensi: gli USA sono uno stato federale e perciò il Presidente deve rappresentare la maggioranza degli Stati.

La Svizzera, che è pure uno stato federale, per i referendum richiede una doppia maggioranza del popolo e dei Cantoni.
Se così non fosse, le elezioni si deciderebbero in un pugno di Stati: California, Texas, New York, Florida, Pensilvania, Illinois e Ohio, cioè sette stati su cinquanta.

Il meccanismo dei grandi elettori favorisce gli stati piccoli perché nessuno stato, quale che sia la sua popolazione, può avere meno di tre grandi elettori.

I grandi elettori sono in numero pari ai rappresentanti dello stato federato nel Congresso degli Stati Uniti, cioè alla somma di senatori e deputati.

I senatori sono sempre due per ogni stato e, quindi, gli stati piccoli pesano proporzionalmente di più.
Teoricamente i grandi elettori non sono obbligati a votare per il candidato per il quale si sono dichiarati, ma grandi elettori infedeli si calcolano in una decina nella storia delle elezioni presidenziali.

I grandi elettori potrebbero giocare un ruolo solo in caso di più di due candidati che conquistino grandi elettori, in modo che nessuno dei candidati raggiunga il quorum di 270 grandi elettori.

I grandi elettori sono 538, perché si devono aggiungere alla somma di deputati e senatori i tre grandi elettori del distretto federale che comprende la città capitale, Washington.

L’impresa di Obama è stata notevole perché la distribuzione demografica tra il 2000 e il 2008 ha penalizzato gli stati tradizionalmente democratici, ad eccezione della California. New York, Pensilvania, Illinois hanno perso due grandi elettori ciascuno, mentre sono aumentati delle stesse unità in Texas e in Florida.

La conquista di stati tradizionalmente repubblicani era essenziale, altrimenti poteva ripetersi la beffa delle presidenziali del 2000, con Gore perdente benché avesse un paio di milioni di voti in più. Allora fu decisiva la Florida, con una storia di brogli mai chiariti.

Obama è giovane, parla bene ed è un meticcio, questo basta per renderlo simpatico a chi non coltiva pregiudizi razziali, per di più si è impegnato nel volontariato: il sostegno dei progressisti è assicurato.

La sua nomination alla Convention dei Democrats sono un segno di vitalità del sistema politico statunitense.
Dal nostro osservatorio italiano con un primo ministro ultrasettantenne e la sua ombra, a capo del PD, sulla piazza da trent’anni, sconcerta che a 47 anni si possa diventare Presidente degli Stati Uniti, essendo per di più figlio di un immigrato africano.

Non solo, la sua esperienza politica come senatore risale al 2004: Clinton diventò Presidente nel 1992 ancora più giovane, a 46 anni, ma era già stato, quasi ininterrottamente, Governatore dell’Arkansas dal 1978.

La sua elezione significa che il fattore razziale non ha giocato contro di lui, se non in alcuni stati, ma se non ci fosse stata la crisi finanziaria di Wall Street e dintorni, le sue possibilità di vittoria sarebbero state ridotte.

Col voto si può esprimere adesione ad un candidato o ad un partito, ma anche punirli: con la popolarità di G.W. Bush ridotta al 30% e l’opinione corrente della responsabilità dell’amministrazione federale nella crisi, ampi settori della popolazione hanno voluto punire i repubblicani.

La filosofia repubblicana di mercati liberi e sregolati è responsabile della bolla speculativa e quindi del suo scoppio. Durante i due mandati di Bush si sono alleggerite le imposte ai più ricchi, ma i disastri finanziari sono stati garantiti dal bilancio federale: le vittime della crisi hanno pagato due volte, come detentori di titoli od immobili con minore valore e come soggetti tassati.

La crisi ha impegnato il bilancio federale e perciò dal 20 gennaio 2009 Obama non avrà ampi spazi di manovra. I democratici hanno guadagnato seggi alla Camera dei Rappresentanti ed al Senato ma non in numero sufficiente per bloccare l’agenda parlamentare dando la precedenza ai loro progetti di legge.

Occorre guardare con fiducia allo scenario, che si apre con l’elezione di Obama, anche se non bisogna farsi soverchie illusioni che si possa rovesciare di colpo le politiche finora perseguite, in Irak ed Afghanistan in primo luogo. Last but not least, la campagna elettorale di Obama è stata molto costosa. Ha raccolto molti contributi di persone fisiche, ma senza i sostanziosi contributi di imprese e finanziarie non avrebbe potuto avere l’ampia copertura televisiva per i suoi spot.

Il rapporto tra finanziamenti privati e favori pubblici non è meccanico e non sempre raggiunge la spudoratezza dei favori fatti dai Bush, padre e figlio, ai petrolieri, ma un condizionamento ci sarà: quello, più che l’esperienza internazionale, sarà il vero banco di prova per Barack Hussein Obama.

P.S.: Mi sento colto da una punta d'invidia, soprattutto se penso al nostro Paese. Personalmente è dal 1961 che vorrei (e mi impegno attivamente per) una società più libera e più giusta, in sintesi: socialista e democratica. Chissà se posso avere anch’io un sogno, vivendo in Italia e non negli USA?

lunedì 27 ottobre 2008

Lettera a Vittorio Foa

Il nostro socialismo? Pensare agli altri nel futuro, in quel futuro di cui abbiamo nostalgia
di Felice Besostri
Caro compagno Vittorio, non Ti ho conosciuto da vicino nel senso di avere con Te diviso il pane, ma la Tua azione mi ha sempre suscitato un sentimento di ammirazione e rispetto.

Quello che mi è piaciuto sempre di Te è il rigore e la scelta di campo, in poche parole essere socialista coerente e conseguente: ce ne sono troppo pochi rispetto al necessario.

Rispetto ed ammirazione non comportano condivisione di tutte le Tue scelte politiche a partire dalla scissione della PSIUP negli ormai lontani anni Sessanta.

Sono convinto che le due scissioni che hanno travagliato il PSI nel Dopoguerra, quella di Palazzo Barberini nel 1947 e quella del PSIUP nel 1964, abbiano sortito effetti nefasti per la creazione in Italia di una forza egemone della sinistra dello stampo dei partiti socialisti, socialdemocratici o laburisti del resto d’Europa.

La mancanza di questa forza spiega il fatto che abbiamo la sinistra più debole d’Europa. In ogni caso, anche quando la somma di PSI e PCI aveva ben altra consistenza, la nostra fu una sinistra che non aveva la possibilità di governare insieme il paese con un proprio programma e un proprio leader.

Se le due scissioni non ci fossero state, Saragat avrebbe impedito la subordinazione frontista del Psi mentre compagni come Te e Lelio Basso avrebbero scongiurato le derive centriste e moderate.

Tutto questo ha segnato il destino della sinistra e democrazia in Italia, quindi anche il mio destino di socialista riformista (cotè intransigente) che ha avuto come punti di riferimento, oltre che in Te, in Pietro Nenni, Lelio Basso, Riccardo Lombardi e Fernando Santi, per rimanere in Italia. E se dovessi rivendicare ulteriori ascendenze, le rinverrei in Kautsky e nell’austromarxismo. Ripensandoci, uno strano destino davvero.

Caro Vittorio, non solo non condivisi la scelta dello PSIUP allora, ma sono rimasto sconcertato dalla moderazione con la quale hai accolto lo scioglimento dei DS nel calderone del PD. Forse è vero, che, anche questa volta, pensavi al futuro e non alle miserie del presente.

Sia come sia, con Te scompare l’ultimo dei compagni d’antan. Per non rendere il vuoto incolmabile, dobbiamo impegnarci verso i giovani, e farlo come Tu sei sempre stato capace.

Chissà se, come il coraggio di Don Abbondio, così anche i valori uno non se li possa dare se già non li ha. Possiamo, però, suscitare interesse e curiosità a cercarli.

Il punto di partenza, come Tu ci hai insegnato, è semplice: pensare agli altri nel futuro.
Questo moto in avanti appartiene alla tradizione iconografica socialista: il sole dell’avvenire, il sole di domani. Pierre Mauroy definiva i socialisti "eredi dell’avvenire".

Dovremmo cessare, come sinistra tutta, di dilapidare, insieme con quello ereditato dal passato, anche il patrimonio futuro.

Nella nostalgia, il "bisogno di (ri)vedere" (secondo la chiara etimologia della corrispondente parola tedesca “Sehnsucht”), non ci si rivolge necessariamente a ciò che è stato, ma anche quello che avrebbe potuto essere e soprattutto a quello che dovrebbe essere: a ciò che dovremmo impegnarci a determinare per il futuro.

Socialismo come nostalgia del futuro. Questo Socialismo sarà, noi non sappiamo esattamente come né quando, ma sappiamo come potrebbe essere un mondo più libero e più giusto. Poiché ce lo siamo immaginato, ne abbiamo nostalgia.

martedì 14 ottobre 2008

LIBERISMO versus DEMOCRAZIA

di Felice Besostri
La sofferta approvazione del piano per salvare la finanza americana e di riflesso quella mondiale ha aperto un dibattito tra i fautori di un intervento, non necessariamente favorevoli a quel intervento, ed i contrari per principio.

Tra i liberisti puri si è distinto, sull’edizione del 27 settembre 2008 di un quotidiano, Il Riformista, che apparteneva all’area riformista della sinistra, Alberto Mingardi, che ha il merito della chiarezza, cioè di definirsi un liberista sconfitto dalla democrazia.

L’autore vuole testimoniare due cose: “La prima, è che noi liberisti non siamo fatti per la politica democratica. La seconda, è che neanche la politica democratica è fatta per il liberismo, se non come estemporaneo candeggio con altri vestiti” e che “È vero ed evidente che la crisi americana ed il suo drammatico avvitarsi di questi giorni (non va sottovalutato il ruolo di una stampa che soffia scandalisticamente sul fuoco, con il banale obiettivo di cucinare il climax dell’elezione di Obama) pongono problemi grossi a chi pensa che sia giusto consentire agli individui di compiere autonomamente le proprie scelte, pagando eventualmente il prezzo dei propri errori.

Secondo l’autore la responsabilità della crisi, assecondando l’opinione di George Soros va in primo luogo fatta risalire al Tesoro Americano e alla Federal Reserve: “Non sono società quotate” annota il Mingardi.

Fermiamoci qui, per il momento.
La prima affermazione, quella della reciproca incompatibilità tra liberismo e democrazia, implica una scelta, cioè nel caso di contrasto chi debba essere sacrificato: è un giudizio di valore, ma nel contempo, come in tutte le vicende umane, un giudizio di opportunità.

Tra l’altro si affaccia una contraddizione nelle tesi sopra esposte, cioè se il timore è che scelte della rappresentanza politica possono essere dettate da ragioni diverse da quella della pura razionalità economica liberista, non è detto che le interferenze di un regime autoritario siano meno pericolose e minacciose di quelle di organi democraticamente eletti. L’autocrate e gli oligarchi non hanno bisogno del consenso (periodico) dei cittadini, ma non si sottraggono alla popolarità, al desiderio di essere amati (l’autocrate) ed al condizionamento dei propri interessi (le oligarchie): una crisi economica che minacciasse le ricchezze dei detentori del potere provocherebbe un intervento a loro difesa. Tra l’altro in sistemi non democratici i governanti, come individui, non pagherebbero nemmeno per le scelte autonomamente fatte: un principio liberista di carattere generale.

Quando additano gli errori di Tesoro e Federal Reserve, non ci si può esimere dal dire che sono stati il frutto di pressioni dei soggetti economici e finanziari o come dice Francesco Forte dell’alleanza “di profitto e salario”: immaginarsi se non c’era una responsabilità dei sindacati! Anche in un paese dove la sindacalizzazione è bassissima od addirittura nulla nelle imprese finanziarie, quelle che più hanno premuto per liberarsi dai controlli e da lacci o lacciuoli di norma regolatrici.

Il punto è che le politiche, anche quelle pubbliche, non sono decise in base al principio democratico, ma in base all’influenza dei gruppi organizzati e delle lobby, cioè di minoranze che antepongono i propri interessi a quelli generali.

Altro punto quantomeno discutibile della tesi del non intervento è che nelle situazioni di crisi l’unico principio liberista è quello di non far niente – cosa che sarebbe impossibile per la classe politica che è stata eletta per far qualcosa.

Se non si fosse fatto niente, gli individui (attori economici) che hanno fatto scelte sbagliate avrebbero pagato per i loro errori.

Non è per nulla dimostrato che avrebbe pagato chi ha fatto errori, ma tutti i cittadini, da quelli il cui fondo pensioni non avrebbe più garantito alcuna rendita, ai dipendenti delle società messe in liquidazione. Quali responsabilità hanno?

Di avere scelto il Fondo Pensione o gli amministratori di questi fondi o di aver eletto un Presidente che ha scelto un governatore della Federal Reserve, che ha fatto scelte nell’interesse degli amici di classe del Presidente?

Orbene, l’intervento per salvare i mercati può essere giusto o sbagliato nel merito, non per il fatto di esserci.
È sbagliato fare pagare ai cittadini gli errori dei grandi maghi della finanza creativa, soprattutto perché in questi ultimi anni le politiche fiscali hanno premiato i profitti e tosato salari e stipendi.

Se ciascuno avesse pagato in proporzione alle proprie fortune ed al proprio reddito, non vi sarebbe nulla di immorale nell’intervento pubblico, perché sarebbe finanziato dai beneficiari principali della deregulation.

L’immoralità è che invece pagheranno di più quelli che non hanno nessuna responsabilità, se non quella di avere subito le suggestioni di uno stile di vita imposto dai media controllati dai soliti gruppi di potere e pressione.

Giustissimo che “alla base dell’accumulazione c’è il risparmio, cioè l’astinenza dal consumo, che giustifica il tasso di interesse dei rentiers”.

Tuttavia, quando si predicava ad imponeva di consumare e di indebitarsi, perché quello era il modello di sviluppo, dove stavano le vestali del liberismo?.

Nel fallimento si possono far valere le responsabilità dell’imprenditore e degli amministratori: la bancarotta è addirittura un reato.

Se si vuole far pagare i responsabili, nulla impedisce che nelle regolamentazioni per il salvataggio si introducano le sanzioni per i responsabili.

Per salvare Alitalia, invece, abbiamo fatto il contrario, cioè esentato da responsabilità gli amministratori, cioè i responsabili del disastro.

È vero che scelte del management sciagurato derivano dalla pressione della politica, cioè dal potere che nomina i manager nelle aziende pubbliche, ma la civiltà giuridica ha imposto il principio, che eseguire ordini dai superiori non esenta dalla propria responsabilità, se si commettono crimini.

Non è la politica, ma l’impunità che consentono di rafforzare legami impropri tra i detentori del potere politico e gli attori delle scelte economiche ed industriali: i manager, pubblici o privati che siano, devono rispondere per quello che fanno, indipendentemente dal fatto che abbiano agito per compiacere i propri referenti politici o l’azionista di riferimento, se le loro azioni non corrispondono all’interesse della società: semmai è un’aggravante.

Dopo la guerra in diversi paesi si introdusse una imposta straordinaria sui profitti di guerra: non sarebbe il caso di introdurla sui profitti conseguiti grazie alle bolle speculative?

Un liberista che crede al mercato autoregolantesi dovrebbe essere convinto che il miglior mercato è quello composto da individui che compiono scelte razionali, per essere razionali bisogna conoscere.

Per quale ragione il sistema capitalistico, invece, prospera nell’ignoranza della grande maggioranza dei suoi attori? Quando il castello finanziario, che può crollare viene valutato 63.000 miliardi dollari, cioè più del PIL dell’intero pianeta, il ridicolo è costituito da un intervento di 700 miliardi di dollari, poco più del 1% del problema. Troppo poco e nell’interesse di troppo pochi, anche se alla fine sono diventati 850 miliardi.

Come ci insegna J.K. Galbraith l’unico socialismo che gli USA possono tollerare è il socialismo per i ricchi. Di fronte alla crisi dei mercati finanziari, che, se non governata, avrà presto pesanti ricadute sull’economia reale, sembra che si verifichino strane convergenze tra i liberisti puri ed i catastrofisti di sinistra. Per i primi non si deve intervenire perché dai fallimenti a catena sorgerà, a prescindere dai costi sociali ( vi ricordate Furore di Steinbeck ? ) risorgerà dalle ceneri un capitalismo più efficiente. Per i secondi il crollo del capitalismo scatenerà le forze rivoluzionarie. Per i socialisti democratici e riformisti la crisi generalizzata va invece evitata, ma non per salvare Wall Street, ma per evitare le sofferenze della maggioranza dei cittadini, specialmente di chi vive del proprio lavoro, per riaffermare il principio dell’interesse generale, per rafforzare il governo democratico della società, per introdurre più giustizia ed equità, cioè ridistribuire la ricchezza. Dalla crisi si può uscire con un New Deal o con un’economia di guerra, come è stato il nazismo in Germania: la svolta rivoluzionaria non è garantita. Dal crollo del mito del mercato e del laissez faire può avere nuovo impulso la critica della società esistente, che è la premessa indispensabile per ogni idea di socialismo, sempre che esista una sinistra capace di elaborare soluzioni e di proporre modelli di sviluppo e di vita e valori alternativi a quelli, che ci hanno fatto precipitare in questa gravissima crisi. In difetto si scateneranno gli egoismi degli individui e delle nazioni più favoriti con i corollari già conosciuti dei nazionalismi sciovinisti, dei localismi esasperati e dell’aggressività guerrafondaia per il controllo delle risorse.

lunedì 15 settembre 2008

Germania: sinistra alla prova

di Felice Besostri
La SPD in crisi di consensi cerca una soluzione sbarazzandosi del Presidente Beck e riposizionandosi al centro: un ritorno alla politica di Schröder. I primi sondaggi di opinione sembrano favorevoli ai congiurati, capeggiati dal ministro degli esteri Steinmeier. Il quale, rispetto la Merkel, resta tuttavia perdente con 21 punti di distacco. E però la Merkel scende dal 57% del duello con Beck a un più periglioso 49%, mentre con il ministro degli esteri il candidato socialdemocratico alla Cancelleria sale dal 12% al 28%.

Il punto per altro non stava nel candidato alla carica di Cancelliere, bensì nel quadro politico della candidatura di Steinmeier. Beck aveva già dato l’investitura a Steinmeier e la disponibilità a portare un partito unito nella campagna elettorale: una delle più difficili nella storia della SPD dal dopoguerra a oggi. Al momento il partito è valutato al 26% delle intenzioni di voto.

Beck aveva già perso, ma l’ala più contraria ad ogni apertura a sinistra ha voluto stravincere liquidando perciò una possibile diarchia Beck-Steinmeier. Scacco in due mosse: prima è venuta una proposta di trojka con l’aggiunta di Müntefering, poi Beck è stato costretto alle dimissioni.

Ora la normalizzazione continuerà con la designazione di Kajo Wasserhövel quale responsabile della campagna elettorale 2009, ma Wasserhövel già da ora assume la direzione dell'esecutivo, con un drastico ridimensionamento del Segretario Generale in carica Hubertus Heil.

Chi segue le vicende della SPD lo sa: si tratta della vendetta di Müntefering, che nel 2005 non riuscì a portare Wasserhövel alla segreteria generale della SPD e si dimise dalla presidenza.

Le reazioni non negative dei sondaggi non sono però tali da configurare un’inversione di rotta nel trend discendente della SPD. Nell’attuale Bundestag ci sono 222 deputati socialdemocratici, cioè appena uno meno dell'Unione costituita dalla CDU e dalla bavarese CSU. Se la SPD prendesse il 28% dei voti, riconfermare tutti i seggi che ha appare fuori portata.

Il lieve incremento nelle intenzioni di voto avviene, per altro, a spese dei Verdi e quindi la consistenza di una proposta di governo SPD/Verdi non si presenta maggioritaria. D'altronde, i nodi della SPD sono politici e non può essere la presentazione di una immagine paternamente rassicurante, come quella di Steinmeier, a risolverli.

Nel Bundestag eletto nel 2005 SPD (222), Verdi (51) e la LINKE (53) avrebbero una maggioranza assoluta ben superione a quella di Prodi nella quindicesima legislatura, ma il risultato è stata la Grosse Koalition. Nella sua prima conferenza stampa Müntefering è stato netto nell’escludere ogni ipotesi di alleanza con la Linke.

Dunque, il Partito Socialdemocratico non si presenta con una credibile proposta di governo perché la Grande Coalizione è già stata accantonata dalla Merkel con un anno di anticipo e quindi non esiste più. La SPD (28%) con i soli Verdi (8%) appare lontanissima dalla maggioranza, a meno che non si allei con la Linke di Lafontaine (14%). Le precedenti elezioni dimostrano che una forte tensione fra SPD e Linke indebolisce la SPD, ma non giova nemmeno alla formazione di Lafontaine tutti i voti persi dai socialdemocratici.

Nell’Assia della governatrice rossa Andrea Ypsilanti la SPD ha iconquistato voti e la Linke anche. Per parte loro i Verdi non escludono più in linea di principio una alleanza con la CDU/CSU, a livello tanto di Länder che federale.

La SPD si trova di fronte ad una alternativa diabolica: se si posiziona al centro continuerà a perdere voti, più verso l’astensione che a favore della Linke. Ma se si sposta a sinistra perderà, comunque, una quota di elettorato moderato senza la garanzia di poter contare sui Verdi per una coalizione rosso-verde e senza contare che la perdita di voti a favore della Linke sarebbe ancor più accentuata qualora sia superato il timore - ed i sondaggi sulle intenzioni di voto lo confermano - che il voto a sinistra della SPD vada disperso per impossibilità della Linke di oltrepassare la soglia del 5%.

Il nodo tedesco è emblematico della sinistra in tutta Europa. La Germania non potrà ritrovare i fasti degli anni 90, con 13 paesi a guida socialista sui 15 dell’Unione Europea di allora. E la sinistra non vince se non diventa portatrice di un progetto di critica alla società esistente, che però non sia riesumazione delle esperienze comuniste del secolo scorso.

La sinistra in Germania entra in una nuova fase, finora sconosciuta: dal dopoguerra a ieri nella BRD il dibattito nella sinistra era stato un affare interno alla SPD e i rapporti con l’esperienza comunista riguardavano più le relazioni con la DDR che con altri partiti: una questione di rapporti, per così dire, interstatuali, ancorché tra tedeschi.

Con la SPD al 28% e la Linke al 14% lo scenario muta, diventa più simile a quello italiano del PCI-PSI, sia pure con rapporti di forza rovesciati tra la formazione socialista e quella comunista. Vi è, però, una differenza: che la Linke ha una robusta componente socialista mentre la corrente comunista appare vaccinata dalla negativa esperienza della SED, partito frutto di una unificazione forzata dai sovietici tra forze politiche della DDR.

In Italia socialisti e comunisti seppero trovare forme di convivenza nelle amministrazioni locali, nella CGIL e nel movimento cooperativo: una convivenza dettata dall’interesse e dalla necessità di difendersi. Ma una tale risposta era politicamente limitata, dettata dalla necessità di difendersi dall’offensiva democristiana e conservatrice. D’altro canto, PSI e PCI non potevano presentarsi come alternativa politica e programmatica di governo nel contesto internazionale di allora. E ora, la SPD rischia di ripercorrere la strada italiana all’indietro, cioè autorizzando accordi con la Linke a livello di Land.

Dopo l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la caduta del Muro di Berlino la sinistra -- in Italia come in Germania e in tutta l’Europa -- avrebbe dovuto aprire un confronto, anche duro, sulle questioni di fondo che l’avevano divisa tra socialdemocratici e comunisti a partire dalla prima guerra mondiale, e poi dagli anni ’20 e poi ancora nel secondo dopoguerra. Farlo in una fase di espansione elettorale sarebbe stato meglio, ma ogni ulteriore ritardo conduce ad una prospettiva di emarginazione. Certo non si arriverà in Germania alla scomparsa della sinistra dal Parlamento, come in Italia.

La Germania ha vissuto sulla sua pelle le divisioni dell’Europa nelle quali si erano calcificate in parte anche le contrapposizioni tra le due anime della sinistra. Eppure, in questo momento, è paradossalmente nella condizione forse più adatta per dare inizio, piuttosto che a una TERZA VIA, a una NUOVA VIA. Sono convinto che abbiamo bisogno di una nuova sinistra più che di un nuovo centro. E penso perciò che al dibattito tedesco occorra partecipare come i tedeschi partecipano al dibattito italiano: da protagonisti più che da tifosi.

Tanto per fare un esempio, molti saluteranno la crisi della SPD come benvenuta, perché essa gli sembrerà rappresentare una sconfitta della odiata socialdemocrazia, mentre i successi della Linke parranno compensare emotivamente la sconfitta della Sinistra Arcobaleno. Ma il problema è quello di conquistare la maggioranza, non di chi la minoranza più forte.

lunedì 8 settembre 2008

Ma la riforma costituzionale non serve

Questa settimana la rubrica "Periscopio" è dedicata alla questione del voto amministrativo ai cittadini stranieri residenti in Italia. E Felice Besostri prende la parola come esperto di diritto pubblico comparato presso la facoltà di Scienze politiche della Statale di Milano.

di Felice Besostri
Si può essere favorevoli, o contrari alla concessione del diritto di elettore attivo e passivo ai cittadini stranieri residenti in Italia o essere semplicemente perplessi.

Chi è favorevole, però, non deve prendere in giro né i cittadini italiani, né quelli stranieri.
Il segretario del PD, Walter Veltroni, ha sollecitato il Presidente della Camera Fini ad impegnarsi ad accelerare l’approvazione di un disegno di legge costituzionale per la concessione del diritto di voto agli stranieri, ovviamente non comunitari, residenti nel nostro paese.

Nella XIV Legislatura (2001-2006) l’allora Segretario di AN presentò un disegno di legge in tal senso.
Dove sta l’imbroglio?
Per concedere l’elettorato attivo e (udite! udite!) anche passivo ai cittadini stranieri residenti non serve una legge costituzionale, basta una legge ordinaria. L’art. 10 c. 2 della Costituzione stabilisce che “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”.

Infatti la possibilità per gli stranieri di partecipare alla vita politica locale è prevista in una convenzione internazionale conclusa nell’ambito del Consiglio d’Europa. Si tratta della Convenzione n. 144 sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale stipulata a Strasburgo il 5 febbraio 1992.

L’Italia l’ha ratificata con legge 8 marzo 1994 n. 203 ma limitatamente ai capitoli A e B, tralasciando il Capitolo C – Diritto di voto alle elezioni locali.

L’art. 6, c. 1 della Convenzione prevede che lo straniero possa votare ed essere eletto se risiede da almeno cinque anni prima delle elezioni.

Il secondo comma dell’art. 6 concede agli stati di limitare il diritto al voto.
Basta una semplice legge di un articolo per dare il diritto di voto e l’eleggibilità agli stranieri: modificare la legge 203/1994 abrogando nel titolo e nell’articolo 1 le parole “limitatamente ai Capitoli A e B”. Questo è quanto, il resto è chiacchiera.

mercoledì 27 agosto 2008

Cecoslovacchia, quarant'anni dopo

In Italia non abbiamo ancora trovato una strada per contribuire alla costruzione di una sinistra europea posizionata al di là delle divisioni degli anni Venti e della Guerra Fredda.

di Felice Besostri
Fatte salve le riflessioni della compagna Luciana Castellina sul Manifesto, nel campo della sinistra italiana, tutta ormai extraparlamentare, non mi pare che l’anniversario del '68 cecoslovacco abbia emozionato più di tanto il dibattito.

Eppure quando il freddo di agosto gelò la Primavera di Praga avrebbe dovuto essere chiaro che la sinistra non poteva essere più quella di prima: la riformabilità dall’interno del sistema sovietico era impossibile.

Ventuno anni dopo il sistema iniziò a sgretolarsi. La non-riforma prese tutt’altra direzione: quella di un capitalismo selvaggio, senza i correttivi che nei paesi capitalistici più avanzati ne limitano in qualche modo gli effetti di darwinismo sociale più marcati.

Questi correttivi, come si sa, sono: libertà, stato di diritto e legalità, cioè un sistema politico democratico, un sistema giudiziario tendenzialmente imparziale, un sistema economico regolato da una normativa capace di garantire la trasparenza dei mercati.

In Cecoslovacchia abbiamo assistito a tutt'altro: i beni pubblici sono stati depredati da oligarchi, ognuno con la sua protezione politica. Spesso il confine tra potere politico, potere economico e criminalità organizzata era ed è molto incerto. Questo intreccio ha consentito a sua volta di manipolare e, quindi, vincere elezioni solo formalmente libere.

In questi quarant'anni il fascino di antiche parole d’ordine, come la difesa del campo socialista, hanno impedito che la sinistra italiana trovasse una sua strada autonoma e desse il suo contributo alla costruzione di una sinistra europea posizionata al di là delle divisioni degli anni Venti e della Guerra Fredda.

Sono convinto che una seria riflessione avrebbe dovuto iniziare già dai "Fatti" di Ungheria del 1956 (notare l’espressione "Fatti", anodina e perciò conciliante!), ma, non volendo gettare benzina sul fuoco, mi sarei accontentato di un ritardo di soli ventidue anni: purtroppo ne abbiamo accumulati altri quaranta.

La storia non si può riscrivere, ma se la conclusione è -- caso unico nelle democrazie parlamentari di tutti e cinque i continenti -- che la sinistra, da quella socialista a quella antagonista, non abbia più alcuna rappresentanza nel Parlamento italiano, allora bisognerà pur dire che la dirigenza complessiva della sinistra italiana ha contribuito con una lunghissima sommatoria di scelte non compiute e occasioni mancate al bel risultato che sta sotto i nostri occhi!

Comprendo le resistenze a prendere atto che il comunismo sovietico avesse fallito, perché nel nostro paese si riteneva che ogni presa di distanza si sarebbe poi coniugata con una -- a mio avviso non necessaria -- deriva moderata di adattamento al sistema. In realtà in Italia non si è stati capaci di passare dell’isolamento filosovietico all’autonomia della sinistra, come nella migliore tradizione socialdemocratica europea.

Se la sinistra non è alternativa, che sinistra è? Nella sua alternatività può essere graduale e prudente, stabilire alleanze con forze di centro più moderate, porsi obiettivi intermedi, ma non assimilarsi, in nome della governabilità e del realismo, alle pratiche di potere e di sottobosco del potere di quelle forze, che non si pongono l’obiettivo di cambiare la società.

Una sinistra non meno vacanziera della destra, una sinistra che si dimentica l’anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia, merita che, proprio approfittando dell’anniversario, si tenti massicciamente di far passare una impossibile analogia tra la Cecoslovacchia del 1968 e la Georgia del 2008, quasi che truppe russe e truppe sovietiche fossero la stessa cosa e che la Primavera di Praga avesse gli stessi obiettivi della Rivoluzione delle Rose.

La omologazione culturale è evidente, perché i comunisti per lo più difendono o giustificano i russi mentre i riformisti stanno dalla parte dei georgiani. E questo vale anche per la maggioranza di coloro che provengono dalle fila del Psi. Stupefacente! Stupefacente, da parte di chi apparteneva a un partito che ebbe il coraggio di candidare e far eleggere Jiri Pelikan.

Ricordiamolo: Pelikan era entrato nella gioventù comunista nel 1939, aveva partecipato alla seconda guerra mondiale ed era stato incarcerato dai nazisti. Nel Dopoguerra aveva presieduto dell'Unione Studenti e successivamente era stato nominato direttore della televisione cecoslovacca. Esponente della "Primavera di Praga", venne rimosso dall'incarico. Riparò a Roma dove ottenne prima l'asilo politico e quindi la cittadinanza italiana, E' stato parlamentare europeo, dal 1979 al 1989. Per favore, ditemi: che cosa c'entra tutto ciò con la situazione russo-georgiana-osseta?!

Non voglio rinfocolare polemiche, ma lanciare un messaggio politico: la sinistra potrà ritrovare la sua forza se sarà capace di affrontare i nodi del passato. E l'assunzione esplicita di un diverso atteggiamento rispetto agli avvenimenti cecoslovacchi del 1968 costituisce senza dubbio uno di questi nodi.

venerdì 18 luglio 2008

Berlusconi Presidente della Repubblica?

La pericolosità della manovra di delegittimare Giorgio Napolitano consiste nell'eventualità che il Presidente si dimetta anzitempo nel corso di questa legislatura spianando la strada alla elezione di Berlusconi a Capo dello Stato. In termini tattici ciò aprirebbe in effetti un marasma nell'alleanza di governo. Ma ne varrebbe la pena?

di Felice Besostri
Se il successo di una manifestazione si giudica, oltre che dal numero di partecipanti, dall'impatto mediatico, l'iniziativa dell'IDV di Di Pietro, dei nuovi girotondi e di personalità sparse, ha avuto successo.

Preoccupano certamente le cadute di stile, e l'errore politico di attaccare il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma non bisogna dimenticare gli attentati allo Stato di diritto ed all'ordinamento costituzionale delle leggi ad personam.

Passato qualche giorno è utile ricordare che nella stessa giornata, in controcanto a Piazza Navona, c'era stata un'altra iniziativa politica, la prima promossa dal Partito Socialista dopo il congresso di Montecatini. S'è trattato di una manifestazione silenziosa di sostegno al Presidente della Repubblica. L'impatto mediato praticamente nullo.

Si capisce che il PD sia in difficoltà. Come diceva il padre Dante: 'chi è causa del suo mal pianga sé stesso'. Il PD ha scelto scientemente di allearsi soltanto con Di Pietro, facendo un calcolo di bottega, perciò anche politico, ma in senso deteriore.

La degenerazione parlamentarista era del resto evidente in tutto lo spettro politico, anche nel centro-sinistra e nella sinistra antagonista. Le previsioni sul numero di voti o parlamentari (ancorché si rivelino poi sbagliate) sono ormai la ragione principale, se non esclusiva, delle scelte elettorali e cioè politiche.

Veltroni si è alleato con Di Pietro per captare voti alla coalizione senza danneggiare la potenzialità di voto del PD. Se, invece, avesse accettato l'apparentamento con una lista a sinistra del PD l'effetto sarebbe stato un risultato complessivo più favorevole alla coalizione, ma a danno dei voti PD. Molti di coloro che ad aprile hanno votato PD sotto il ricatto del "voto utile", avrebbero dato il proprio consenso alla sinistra, per quanto moderata essa fosse.

Ora Di Pietro cerca di capitalizzare, in vista delle elezioni europee lo sdegno antiberlusconiano nell'esclusivo interesse del suo partito anche a costo di indebolire il PD. Senza più il ricatto del voto utile l'aggressività dell'IDV potrebbe essere apprezzata da quella quota dell'elettorato di sinistra, smarrito dalla sconfitta cocente e, aggiungo, irrimediabile della Sinistra Arcobaleno: altro calcolo elettoralistico sbagliato di questa stagione disastrosa.

Il calcolo elettoralistico fa premio su tutto. Di Pietro ha preso le distanze dalle volgari intemperanze di Grillo, ma non potrà rompere perché nella sua strategia non può permettersi che a Grillo venga in mente di presentarsi alle europee con una propria lista.

La pericolosità della manovra di delegittimare Giorgio Napolitano consiste nell'eventualità che il Presidente si dimetta anzitempo nel corso di questa legislatura spianando la strada alla elezione di Berlusconi a Capo dello Stato.

In termini tattici ciò aprirebbe in effetti un marasma nell'alleanza di governo. Ma ne varrebbe la pena?
Centro-sinistra e sinistra hanno bisogno di ridefinirsi, di elaborare programmi alternativi a quelli della maggioranza: non di cadere nella manovra politicista di giocare sulle contraddizioni latenti nel PdL e su quelle più visibili tra PdL e Lega Nord.

I socialisti sono riusciti a chiudere il loro Congresso con una parvenza di unità. Hanno fatto bene a sostenere il Presidente della Repubblica, ma hanno sbagliato a dare un avallo preventivo alla legge sull'immunità temporanea delle massime cariche dello Stato con legge ordinaria.

Senza modifica della Costituzione il 'lodo Alfano' è a rischio di incostituzionalità, come ritiene la grande maggioranza dei giuspubblicisti.

Sinistra Democratica è ancora alla ricerca di un ubi consistam tra il socialismo europeo e le sirene dell'unità della sinistra.

Rifondazione Comunista è sull'orlo di una scissione o, nel migliore dei casi, di una crisi di nervi: comunque il revisionismo bertinottiano ha cessato di essere un fattore propulsivo.

Ad ogni piè sospinto ci sono elezioni, mentre una pausa di riflessione politica e teorica sarebbe necessaria senza l'incubo del risultato elettorale. Il punto è quello della attualità del socialismo nel XXI secolo: le condizioni oggettive ci sono ma quelle soggettive latitano.

venerdì 11 luglio 2008

Nostalgia sì, ma di futuro

Testo dell'intervento al primo congresso del PS tenutosi a Montecatini Terme dal 4 al 6 luglio scorsi.
di Felice Besostri

Spero che ci sia la pubblicazione degli atti del Congresso, così saremo tutti uguali e avrà più importanza quello che si dice e non quello che si è, cioè compagni di serie A, che parlano con la sala piena e quelli di serie B nel vuoto.

È stato un errore fischiare Veltroni prima che parlasse. Si applaude o si fischia dopo: alla fine del discorso. Veltroni ha detto cose interessanti sul futuro e sul passato.

Bene andare ad un accordo con le proprie identità e con le proprie gambe ma invece di un discorso generico avrei preferito sentire un impegno preciso da parte sua e del PD: Non modificheremo la legge elettorale per le europee: per non tagliarvi le gambe.

Mi ha fatto piacere sentire che nel 1956 aveva ragione il PSI e torto il PCI. Ma avrei preferito sentire dire che aveva sbagliato nel 2008 a non farci apparentare. Con i suoi ritmi dovremo aspettare 52 anni, cioè il 2060 quando non ce ne importerà nulla, anche se auguro lunga vita a lui e a noi.

Torniamo a noi.
Con buona pace del Sindaco di Montecatini farò la citazione di un giacobino. Saint Just diceva “C’è un paradosso nella democrazia poiché richiede ai molti le virtù che normalmente sono di pochi”.

Ebbene nel caso del Socialismo questo paradosso è ancora più paradossale: essere socialisti in Italia richiede virtù eroiche. Se, come dice Bertoldt Brecht, beati i popoli che non hanno bisogni di eroi: l’Italia è un paese infelice e come tutti gli infelici o cade nella depressione o cerca la consolazione nell’evasione. Qui abbiamo la più grande delle contraddizioni. Mai come in questo periodo ci sono le condizioni oggettive che richiedono risposte socialiste.

La percentuale del PIL destinata a stipendi, salari, pensioni ma anche ai redditi lavorativi diminuisce a favore di rendite e profitti, la mobilità sociale è ridotta, l’estensione dei diritti civili è inferiore a quella di altri paesi, la laicità è minacciata dalle ingerenze clericali, il potere della finanza è senza limiti, ci sono vere e proprie sacche di povertà ed emarginazione sociale, l’accesso ai servizi pubblici, compresa l’istruzione e la salute, non è universalmente garantito, non c’è un piano pubblico per la ricerca e l’innovazione, non ci sono grandi progetti pubblici per le reti logistiche e trasmissioni dati. Se in presenza di condizioni oggettive non c’è un partito socialista: da qualche parte ci sono responsabilità soggettive. Dunque rinnovamento profondo dei gruppi dirigenti.

Caro Nencini, ho apprezzato il Tuo discorso e l’appello all’unità. Nei periodi di massima tensione, anche nel PSI, se si voleva riscuotere applausi scroscianti, bastava gridare “Unità! Unità!” Applaudivano tutti, ma passato il momento magico tutto tornava come prima: i problemi non erano risolti alla radice, ma soltanto accantonati. L’unità non può essere come un bel tappeto persiano sotto il quale nascondere ed accumulare la sporcizia. Va bene l’unità ma prima facciamo pulizia!

Voglio raccontare un aneddoto relativo alle elezioni presidenziali georgiane dell’anno 2000. Ero un osservatore internazionale, nominato dal Consiglio d’Europa, per controllare la regolarità della elezioni. Shevarnadze era il più noto dei tre candidati: le previsioni ne davano la sicura vittoria con percentuali superiori al 60%. Ebbene gli osservatori internazionali riscontrarono una serie di irregolarità. Nei seggi dubbi o non controllati le percentuali per Shevarnadze erano superiori al 80%, con punte del 90%. Prima di stendere il rapporto gli osservatori internazionali ebbero un incontro con il Presidente georgiano e gli chiesero il perché di questi brogli, quando avrebbe comodamente vinto in elezioni regolari. Shevarnadze allargò le braccia e disse che non aveva responsabilità, anzi la sua immagine era danneggiata. Tuttavia suoi sostenitori che volevano acquistare particolari meriti ai suoi occhi avevano alterato le elezioni, contando sulla sua futura riconoscenza, che immaginavano tanto più grande quanto più alta fosse stata la percentuale di voti. Bisogna guardarsi più dai propri sostenitori settari, che dai presentatori di mozioni alternative! Shevarnadze pochi anni dopo perse il potere con ignominia quando avrebbe potuto passare alla storia come il primo Presidente democratico della Georgia. Alla luce del penoso risultato elettorale i socialisti corrono il rischio di diventare nostalgici di un glorioso passato. I socialisti possono essere nostalgici, ma non del passato: Il Socialismo è sì nostalgia, ma del futuro.

La registrazione audio-video del congresso socialista è disponibile su Radio Radicale: Vai alla Prima giornata (relazioni politiche), vai alla Seconda giornata (dibattito, intervento di Veltroni), vai alla Terza giornata (conclusione dibattito, delibere e risoluzioni).

venerdì 4 luglio 2008

Ammanco di costituzionalità

Può una legge ordinaria introdurre immunità riservata a quattro cittadini in ragione delle loro funzioni?

di Felice Besostri

Il lodo Schifani bis (o Alfano) cerca di superare le obiezioni di costituzionalità mosse con la sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2004.
Tuttavia non supera la questione maggiore, se cioè una legge ordinaria possa introdurre una immunità sia pure temporanea, riservata a quattro cittadini in ragione delle loro funzioni.
Sono in gioco diversi articoli della Costituzione, non solo il 3 sull’uguaglianza dei cittadini, ma anche il 25, per cui nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale, il 27 sulla responsabilità personale ed il 112 sull’obbligatorietà dell’azione penale, nonché l’art. 111 sulla ragionevole durata dei processi.
La Costituzione, inoltre, si occupa specificamente con norme speciali dei reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni dal Presidente della Repubblica (art. 90) e dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri.
Dunque, per i reati commessi non nell’esercizio delle loro funzioni vige il principio della soggezione alla giurisdizione ordinaria.

Soltanto con legge costituzionale si può intervenire per modificare l’assetto normativo vigente, ma anche per una ragione di evitare una censura di trattamento discriminante tra il Presidente del Consiglio e gli altri Ministri, nonché tra i Presidenti delle Camere ed i Senatori ed i Deputati.
Il Presidente del Consiglio non è eletto direttamente dai cittadini, malgrado la legge elettorale lo possa lasciare credere: l’art. 97 della Costituzione non è stato modificato.
La ratio della legge vuole impedire una crisi di carattere istituzionale, ma tale ratio non ha alcun senso per i Presidenti delle Camere.
I Presidenti delle Camere hanno più vice-presidenti, che possono assicurare il funzionamento degli organi. Infine, se si dovessero dimettere, potrebbero essere rapidamente sostituiti a differenza del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio.
Tutto chiaro. L’attuale maggioranza ha i numeri per far passare una legge costituzionale alla Camera ed al Senato, salvo l’eventuale referendum costituzionale.
Tuttavia i tempi non consentono di raggiungere l’obiettivo in tempo utile per il Cavaliere Berlusconi in relazione ai tempi del processo per corruzione di testimoni: da qui la fretta.
Tuttavia la saggezza popolare dice che la fretta è cattiva consigliera e che la gatta frettolosa partorisce gattini ciechi.

Ammanco di costituzionalità

Può una legge ordinaria introdurre immunità riservata a quattro cittadini in ragione delle loro funzioni?
di Felice Besostri
Il lodo Schifani bis (o Alfano) cerca di superare le obiezioni di costituzionalità mosse con la sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2004.
Tuttavia non supera la questione maggiore, se cioè una legge ordinaria possa introdurre una immunità sia pure temporanea, riservata a quattro cittadini in ragione delle loro funzioni.
Sono in gioco diversi articoli della Costituzione, non solo il 3 sull’uguaglianza dei cittadini, ma anche il 25, per cui nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale, il 27 sulla responsabilità personale ed il 112 sull'obbligatorietà dell'azione penale, nonché l'art. 111 sulla ragionevole durata dei processi.
La Costituzione, inoltre, si occupa specificamente con norme speciali dei reati commessi nell'esercizio delle proprie funzioni dal Presidente della Repubblica (art. 90) e dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri.
Dunque, per i reati commessi non nell'esercizio delle loro funzioni vige il principio della soggezione alla giurisdizione ordinaria.

Soltanto con legge costituzionale si può intervenire per modificare l'assetto normativo vigente, ma anche per una ragione di evitare una censura di trattamento discriminante tra il Presidente del Consiglio e gli altri Ministri, nonché tra i Presidenti delle Camere ed i Senatori ed i Deputati.
Il Presidente del Consiglio non è eletto direttamente dai cittadini, malgrado la legge elettorale lo possa lasciare credere: l'art. 97 della Costituzione non è stato modificato.
La ratio della legge vuole impedire una crisi di carattere istituzionale, ma tale ratio non ha alcun senso per i Presidenti delle Camere.
I Presidenti delle Camere hanno più vice-presidenti, che possono assicurare il funzionamento degli organi. Infine, se si dovessero dimettere, potrebbero essere rapidamente sostituiti a differenza del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio.
Tutto chiaro. L'attuale maggioranza ha i numeri per far passare una legge costituzionale alla Camera ed al Senato, salvo l'eventuale referendum costituzionale.
Tuttavia i tempi non consentono di raggiungere l'obiettivo in tempo utile per il Cavaliere Berlusconi in relazione ai tempi del processo per corruzione di testimoni: da qui la fretta.
Tuttavia la saggezza popolare dice che la fretta è cattiva consigliera e che la gatta frettolosa partorisce gattini ciechi.

lunedì 30 giugno 2008

E allora prendete anche le nostre impronte

L'A.n.e.d. (Associazione nazionale ex deportati) di Roma esprime la più sentita riprovazione per il disegno di legge,che prevede la schedatura dei Rom e Sinti presenti sul territorio italiano, tramite la rilevazione delle impronte digitali come in uso per i criminali. Il provvedimento è particolarmente odioso e inaccettabile, perché rivolto anche ai bambini e a tutti i minori che, finora, anche se privi di documenti, hanno potuto frequentare la scuola pubblica del nostro paese. Il progetto di schedatura è, oltretutto, in totale contrasto con la Convenzione Internazionale per i Diritti del Fanciullo promulgata nel 1989 dall'O.N.U. e ratificata dallo Stato italiano.
Tale provvedimento richiama procedure di schedatura razzista utilizzate dai regimi nazifascisti durante il secolo scorso, per costruire archivi che miravano alla individuazione, emarginazione, concentrazione e conseguente deportazione di ogni minoranza e diversità.

Nel caso che questo provvedimento venisse approvato, l'intero Consiglio direttivo dell'Aned di Roma, chiede di essere schedato insieme ai Rom.

Aldo Pavia (Presidente)
Vera Michelin- Salomon (Vicepresidente)
Maurizio Ascoli
Stefano Batori
Sara Contardi
Grazia Di Veroli
Pupa Garribba
Eugenio Iafrate
Erminia Licitri
Rosa Melodia Scicchitano
Mirella Stanzione
Piero Terracina
Antonella Tiburzi
Claudia Zaccai

Sottoscrivo ed invio per conoscenza a: liberta.civiliimmigrazione@interno.it
Primarosa Pia - Aned Torino
Sottoscrivo. Andrea Ermano, direttore Edizioni ADL, Zurigo

venerdì 13 giugno 2008

Ma l'anello è come il vitello

Note laiche a margine di un baciamano.

di Andrea Ermano

Nei giorni scorsi un vecchio amico mi ha fatto pervenire il testo di un sacerdote di base, esponente della sinistra cattolica, il quale stigmatizzava il recente incontro del Cavaliere con il papa e soprattutto "l'immagine di Silvio Berlusconi che prende tra le sue mani la destra anulata del papa e, inclinato capite, compunto, ne bacia l'anello, consapevole della dissacrazione che compie".

O bella, mi son detto, la destra italiana e le gerarchie vaticane stringono platealmente un patto di ferro, preparato di lunga lena, ma la sinistra cattolica dipinge l'evento come se il povero Ratzinger fosse stato turlupinato dall'astutissimo Cavaliere, il quale se ne prenderebbe diabolicamente gioco dinanzi al mondo intero: "consapevole della dissacrazione". Dissacrazione?! Andiamo. Per la teologia cristiana gli anelli d'oro sono come i vitelli d'oro. Da quando in qua ci sono anelli/vitelli sacri e anelli/vitelli profani?
La faccio breve. La mia posizione è questa: l'Italia delle repubbliche ordinali ("seconda", "terza", ecc.) esemplificata dalla piaggeria politica nei riguardi del potere papale mostra, di fronte al mondo intero, che cos'è il cattolicesimo reale, al di là di dottrine e catechismi, al di là dei Vangeli e delle belle prediche, che restano, in linea generale, lettera morta.

Il problema della dissacrazione attribuita a Berlusconi è dunque fuorviante perché tende a ribadire una sacralità pontificia il cui risvolto sarebbe la legittimità inattaccabile del patto di ferro tra la destra e il clero. Dopodiché non ci aiuta più molto dire che il Cavaliere, nella sua condizione impura di monopolista televisivo, ha dissacrato l'anello pontificale, d'oro puro e zecchino.
Che cosa diremo domani, quando al posto di Berlusconi la guida della destra italiana fosse assunta dal "gentiluomo di Sua Santità" Gianni Letta, le politiche xenofobe e antisociali immutate, che Letta già per altro condivide in qualità di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio?

Insomma, quell'anello viene baciato perché benedice la destra italiana e lo fa perché così hanno deciso le gerarchie, in base a calcoli di potere, non certo perché ne siano state costrette da qualcuno.

Dobbiamo perciò guardarci dal siparietto secondo cui Papa Ratzinger incarnerebbe una sorta di bene ingenuo soggiogato dal male radicale. Capisco che ciò corrisponda al sincero desiderio di molti cattolici di sinistra, sinceramente anti-berlusconiani, ma nulla di quanto sappiamo avvalora questa rappresentazione (di comodo). Papa Ratzinger e il cav. Berlusconi hanno semplicemente proclamato di fronte a tutti la loro grande amicizia politica, fondata su solidi interessi.

Feltrinelli ha recentemente pubblicato un libro di Curzio Maltese che s'intitola "La questua" nel quale l'autore riassume il seguente stato dell'arte: un miliardo di euro dai versamenti dell'otto per mille, 650 milioni di euro agli insegnanti di religione (assunti dal vescovo, mantenuti da tutti), 700 milioni per convenzioni su scuola e sanità, 250 milioni per "grandi eventi". Lo Stato italiano dà alla Chiesa cattolica una montagna di denari oltre che innumerevoli vantaggi e privilegi. Al centro di un'inchiesta dell'Unione europea: le esenzioni Ici, Irap, Ires e l'elusione fiscale per attività turistiche e commerciali collegate alla religione cattolica. Fanno circa quattro miliardi di euro. Ogni anno. Mezza finanziaria.

E' chiaro che in questi termini anche il confronto delle idee, delle posizioni culturali e delle opzioni valoriali risulta molto, molto squilibrato. Esempio. Trent'anni fa il popolo sovrano bocciò a stragrande maggioranza il referendum abrogativo voluto dalle gerarchie contro la legge 194 sull'interruzione di gravidanza. Invece di accettare quel pronunciamento democratico, la Chiesa cattolica ha condotto una lunghissima campagna contro quella legge. Indifferente al fatto che con la 194 si sia drasticamente ridotta nel nostro Paese la piaga degli aborti clandestini, oggi l'indicazione del Papa al Parlamento italiano è chiara e una sola: la si modifichi!

Domanda. Quali conseguenze ha già avuto, ha ed avrà tutta questa vicenda sul Paese? Quali conseguenze, ad esempio, sul sentimento civile, morale e personale delle donne italiane? Quali conseguenze sul loro ruolo nella società, nell'economia, nella politica e nella cultura? E quali conseguenze sul bene pubblico? Alle gerarchie non interessa. E sufficiente stabilire con giudizio "infallibile" che sono "gran peccato" sia l'interruzione di gravidanza, sia la pillola del giorno dopo, ma anche quella del giorno prima e persino l'uso del profilattico... In quale altro paese europeo si assiste a interferenze del genere, fatta ovviamente eccezione per i movimenti clerico-fascisti in Polonia?

E allora, cari vescovi e cardinali, è chiaro che voi farete quel che vi pare. E non ci sogniamo neppure di dirvi di mantenere un profilo più consono. Parlate pure. Gridate allo scandalo, come avete sempre fatto. Ma non potete far finta di atterrare da Marte ogni mattina per la prima volta, denunciando il grave disordine morale e civile in cui versa il Paese! Evvia, questo siete voi stessi. Questo è il frutto reale del vostro magistero. Questo è per l'appunto il cattolicesimo reale.

In conclusione, anche tanti altri bravi preti che si distinguono per le esternazioni più incandescenti contro l'ingiustizia sociale non possono dirsi estranei alle strategie di legittimazione e delegittimazione insite nel sistema di consenso e di potere su cui questo cattolicesimo reale si fonda ed è in vigore nelle "nostre" (si fa per dire) repubbliche ordinali.

Il Vaticano senz'ombra di dubbio è uno tra i poteri forti nell'Italia di oggi. Considerata la sua presenza ormai pervasiva nelle istituzioni politiche, economiche e culturali, sarebbe decente per la gerarchia assumere almeno una qualche responsabilità storica rispetto a ciò che è accaduto e accade nel Belpaese.

mercoledì 11 giugno 2008

Così liquido...

di Andrea Ermano

"Qui le cose si stanno mettendo molto male", scrive oggi sul Riformista il direttore Polito, secondo il quale che la "terza via" (cioè il PD blairiano di Walter Veltroni) sarebbe giunta al capolinea. "Le nuove idee della sinistra non potranno che nascere a sinistra" e non quindi nell'arco centrista, teso tra i due ex sindaci di Roma a "imitazione tardiva e ingenua delle idee di destra", è il giudizio dell'ex senatore del PD (immemore forse che, tanto per dirne una, Marco Revelli aveva scritto il suo libro sulle "due destre" un bel po' di anni or sono).

Quel che ha fatto saltare la mosca al naso a Polito sono non tanto o soltanto i sondaggi (che indicano un PD in caduta libera), ma l'inciucio tra il gentiluomo di Sua Santità, Gianni Letta, e Veltroni: "Il PD è diventato così liquido che Berlusconi se lo beve a colazione. Giuro che non avrei mai immaginato di vedere il leader dell'opposizione incontrare riservatamente un sottosegretario per parlare di Rai. La gente vede la consociazione... Qui si rinvia persino l'insediamento della Commissione di vigilanza in attesa che i leaders si mettano d'accordo sulla Rai... Il PD è così liquido che in due giorni si sono riunite quattro diverse correnti di cattolici e a un anno dalle europee non sa ancora se sarà socialista o liberale".

Un commentatore ha chiosato oggi la situazione del PD con queste parole: "Sulle divisioni del PD vi ricordo che alle prossime europee, a quanto pare, gli ex della Margherita e gli ex dei DS si presenteranno con delle liste separate. Quindi, almeno fino a questo momento così è, il PD non parteciperebbe con sue liste".

Si tratterebbe di una prospettiva letteralmente in-audita: davvero non si era mai sentito che un'importante formazione politica di un Paese del G8 si presenti per ben due volte al rinnovo del Parlamento di Strasburgo in ordine sparso.

Quattro anni fa DS e Margerita si presentarono alle europee con le liste comuni di "Uniti nell'Ulivo", che doveva prefigurare il PD. Poi, una volta eletti, si divisero entrando a far parte di gruppi parlamentari diversi. E oggi, dopo avere fatto il PD a costo di scassare il Governo Prodi e l'intero centro-sinistra italiano, si ridividono, stavolta addirittura prima delle elezioni...

Ancora non si sono accordati su come collocarsi in Europa. E dite voi se son bazzecole. Franceschini un anno fa diceva pacatamente serenamente che "il nodo della collocazione in Europa potrebbe risolversi da sé". Ricordate? Be', non si è risolto.

giovedì 5 giugno 2008

Governare bene (2)

Due anni dopo
"Anche la crisi della forma partito corre parallela alla crisi dello stato-nazione. E qui in ultima analisi il ragionamento sul governo cosmopolita e la democrazia mondiale approda al suolo della socialdemocrazia europea, che nel nostro tempo - dopo essersi battuta con successo contro l'inumano sfruttamento capitalista, l'imperialismo nazionalista, il clerico-fascismo, il nazi-fascismo e il comunismo sovietico - si vede posta dinanzi al suo compito più alto e generale". Pubblichiamo oggi la seconda parte del discorso tenuto il 21 giugno 2006 al teatro S. Carlo di Milano dal nostro direttore, Andrea Ermano, nell'ambito del convegno "Sinistra come in Europa - Autonoma, socialista, laica" i cui atti sono pubblicati dalle Edizioni ADL.

di Andrea Ermano
Se le grandi questioni ambientali, alimentari, demografiche e strategiche globali pongono all'ordine del giorno della "vecchia Europa" l'impegno per la costruzione di governo politico del mondo, è però chiaro che la grande sfida di un governo cosmopolita riguarda anzitutto la possibilità di una democrazia transnazionale e globale. Disgiungere la prospettiva cosmopolita dal metodo del consenso democratico sarebbe del tutto insensato, per non dir di peggio.

Si capisce infatti che nessuna istituzione, quale che sia la sua potenza militare o finanziaria, tecnologica o diplomatica, potrà mai governare l'umanità senza o contro la maggior parte degli esseri umani.

Ma nessun consenso può venire dalla maggior parte degli esseri umani a una proposta politica generale che, nei contenuti, non vada a confrontarsi con l'enorme "Questione sociale" costituita da bisogni, diffusi ed altamente drammatici, che attanagliano larga parte dei nostri consimili.

E però, nel grande quadro d'insieme, dal quale emerge l'impellenza cosmopolita, non si delinea soltanto la necessità di affrontare la "Questione sociale globale", ma anche la necessità di affrontarla in una dimensione di pluralismo culturale e religioso, una dimensione tanto più irriducibilmente pluralista quanto più la si guardi su scala globale. Perciò, operano di fatto contro la pace coloro i quali rivendicano le radici cristiane dell'Europa all'interno di una logica identitaria, indebolendo se non avversando l'impegno occidentale a favore del pluralismo.
E qui mi pare in ultima analisi che il ragionamento sul governo cosmopolita e la democrazia mondiale approdi al suolo della socialdemocrazia europea, che nel nostro tempo si vede posta dinanzi al suo compito più alto e generale. Centocinquant'anni di tradizione politico-organizzativa della socialdemocrazia europea -- oppostasi con successo all'inumano sfruttamento capitalista, all'imperialismo nazionalista, al clerico-fascismo, al nazi-fascismo e al comunismo sovietico -- nascono dal combinato disposto tra l'idea di Giustizia, sottesa all'impegno nella Questione sociale globale, e l'idea di Libertà, sottesa a una accettazione laicamente ispirata delle diversità culturali.

Chi in questi giorni (giugno 2006, ndr), nel corso di un'insulsa querelle sul "cattocomunismo", va accusando alcuni esponenti del centro-sinistra al governo di essere divenuti troppo "laici" e di aver smarrito la tensione ideale a favore della Giustizia che era un tempo caratteristica del PCI e del dissenso cattolico, dimentica che la laicità non può in alcun modo essere ridotta a mera questione di individualismo o indifferentismo etico, ma investe la condizione di milioni di lavoratori e di giovani immigrati nonché, come si è detto, la questione stessa della pace.

Non è un caso che il dissidio globale ribollente e diffuso cui assistiamo ormai da un decennio e più nelle varie aree calde del mondo denunci costanti motivazioni, o comunque giustificazioni etnico-religiose. Sicché il ruolo politico dell'UE nell'articolazione di una prospettiva democratica globale non potrebbe rivendicare alcunacredibilità presso altri grandi interlocutori -- quali il mondo islamico, la Cina, l'India -- laddove esso non s'improntasse alla nozione di laicità, base possibile per un dialogo interculturale volto ad adeguare in senso democratico e multilaterale le istituzioni politiche del mondo in cui viviamo.

Certo, ci sono forze che operano sullo scenario internazionale mostrando sensibilità ai problemi sociali, e in prima fila troviamo impegnate su questo fronte le grandi istituzioni religiose. E ci sono forze che operano sullo scenario internazionale mostrando sensibilità al problema dei diritti e delle libertà, e in prima fila troviamo impegnate su questo fronte le grandi istituzioni economiche. Ma a memoria d'uomo non è nota alcuna formazione politica strutturata su scala mondiale e in grado di declinare concretamente il binomio di Giustizia e di Libertà: fatta eccezione per l'Internazionale Socialista, pur con tutti i suoi limiti, fragilità e debolezze.

Se insomma non si può negare che il compito generale della politica si misuri oggi anzitutto e soprattutto in rapporto al problema di dare un governo democratico alla globalizzazione dell'economia e al confronto tra le culture, allora si dovrà pur ritenere che gli strumenti teorici, la cultura politica laica, la vastissima rete di organizzazioni ed esperienze storiche sedimentatesi in centocinquant'anni di lotte del movimento operaio europeo rappresentano oggi più che mai un bene politico prezioso per tutta l'umanità. A me questo ragionamento pare lampante, e sinceramente mi deprime leggere che il sindaco-filosofo di Venezia, Massimo Cacciari, pur consapevole di cose geopolitiche, accusi noi socialisti di "ottocentismo".

Il compito, classicamente riformista, "di raggiungere democraticamente il governo del paese per governare bene" va dunque ri-concepito nell'orizzonte di una democrazia globale. Ed è solo a partire da questo criterio generale che si può comprendere, per converso, quale "partito" sia più adatto ad affrontare la sfida del nostro tempo. Con il che spero sia divenuta evidente la ragione per cui, quando usiamo l'espressione "partito", dovremmo in primo luogo ragionare non di DS, DL o SDI, ma di formazioni politiche internazionali. Ed è assai bizzarro che in Italia si faccia esattamente il contrario.

Per quanto detto, anche la crisi della "forma partito" non pare superabile né a partire da una rozza contrapposizione tra "società politica" e "società civile" e nemmeno basterebbe abbracciare una prospettiva radicalmente tesa a sconfiggere le tendenze oligarchiche insite nella "partitocrazia". Ciò che occorre è anzitutto assumere una prospettiva transnazionale. L'azione del partito e il nostro impegno in esso devono possedere sì radicamento territoriale, ma anche un orizzonte generale. La crisi della forma partito corre parallela alla crisi dello stato-nazione.

Dopodiché, il dubbio che ci poniamo è se i dirigenti diessini si rendano veramente conto di che cosa comporti spingere verso lo "spacchettamento" del socialismo europeo per costruire qualcosa che viene presentato come più bello, più nuovo e più transoceanico, ma che in realtà risponde alla ben nota logica dell'anomalia italiana e della sua eterna conservazione gattopardesca.

Se i DS, nati a Firenze nel 1998 con lo scopo di costruire anche in Italia un grande partito del socialismo europeo capace di candidarsi al governo del paese (heri dicebamus), abbandoneranno questo progetto originario e se provocassero così l'ennesima spaccatura all'interno della sinistra italiana e internazionale, gli effetti potrebbero essere più o meno questi tre: a) un notevole spostamento a destra dell'asse politico nel nostro Paese; b) un sensibile spostamento a destra dell'asse politico europeo; c) un lieve spostamento a destra dell'asse terrestre. Per adesso tutto questo però non è ancora avvenuto. Speriamo che se ne possa parlare seriamente. (2. Fine)

Poscritto 4.6.2008 - Il mio intervento del 2006, qui sopra riportato, si concludeva con la speranza che se ne potesse parlare seriamente. Ciò non è accaduto né prima né durante né dopo lo scioglimento del Pci-Pds-Ds nel Pd. E le conseguenze si sanno. Ma neanche di questo si sta parlando seriamente. Intanto il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha manifestato il 2 giugno, giorno solenne, un rischio di "regressione civile" nel nostro Paese. Non sono bazzecole. Chi ne assume la responsabilità? Il gruppo dirigente del Pci-Pds-Ds-Pd tace, e del resto a giudizio di molti (Macaluso, Romano, Besostri, Vander, Bagnoli per citarne solo alcuni a me noti) esso ha mirato principalmente alla conservazione trasformista della propria ubicazione dentro l'establishment italiano. Ma anche coloro i quali ritenevano che almeno l'ancoraggio europeo (e quindi al socialismo europeo) rappresentasse "di fatto" un punto di riferimento molto saldo a sinistra, si trova oggi a porsi alcune scomode domande: noi siamo tra questi. Il PD sta navigando in direzione di un riformismo europeo? Finora non siamo riusciti a capirlo. Saremmo molto grati a chiunque, e soprattutto a Veltroni, se ci fosse data una maggior trasparenza su questo punto decisivo. Altrimenti non importa. Tra pochi mesi, in concomitanza con le elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, anche il mistero della collocazione internazionale del PD sarà svelato. - AE

martedì 3 giugno 2008

Governare bene

"Se i DS, nati a Firenze nel 1998 con lo scopo di costruire anche in Italia un grande partito del socialismo europeo abbandoneranno questo progetto provocando l’ennesima spaccatura all’interno della sinistra italiana e internazionale, gli effetti potrebbero essere più o meno questi tre: a) un notevole spostamento a destra dell’asse politico nel nostro Paese; b) un sensibile spostamento a destra dell’asse politico europeo; c) un lieve spostamento a destra dell’asse terrestre". Di seguito il testo del discorso tenuto il 21 giugno 2006 al teatro S. Carlo di Milano dal nostro direttore, Andrea Ermano, nell'ambito del convegno "Sinistra come in Europa - Autonoma, socialista, laica" i cui atti sono pubblicati dalle Edizioni ADL.

di Andrea Ermano
Seguo da tempo, con attenzione, il dibattito in posta elettronica nella Newsgroup della Sezione DS “Aldo Aniasi” di Milano Centro, dove nelle scorse settimane mi ha colpito un’osservazione sul Partito democratico: “In assenza della fede in futuri eventi rivoluzionari” – scriveva una compagna – “l’obiettivo di un partito riformista non può che essere quello di raggiungere democraticamente il governo del paese per governare bene: cioè modificare le condizioni materiali e immateriali di vita della gente qui e ora, secondo un definito schema di valori”.
Penso anch’io che l’obiettivo dell’azione politica, rispetto alla quale il partito è sempre solo un mezzo e non mai un fine, “non può che essere quello di raggiungere democraticamente il governo del paese per governare bene”. Governare bene. Se non che, bisogna dirlo, il Paese non appare più governabile a partire da un orizzonte nazionale. Il nostro orizzonte di governabilità è l’Europa: un “giudizio di fatto” valido, mi pare, anche indipendentemente dal nostro schema di valori, che tradizionalmente colloca (o dovrebbe collocare) il concetto di “nazione” nell’umanità intera.

Che l’Europa rappresenti l’orizzonte di governabilità dell’Italia costituisce del resto il caposaldo politico-programmatico comune del centro-sinistra italiano. Si tratta, ancorché tardivamente, di un esito del dibattito politico: desideriamo ricordarlo agl'immemori, anche perché in anni lontani, ma non dimenticati, fu questa editrice a diffondere il Manifesto di Rossi, Spinelli, Colorni e Ursula Hirschmann. Era pervenuto alla “Cooperativa” di Zurigo dall’isola di Ventotene, trafugato nel doppiofondo d’una valigia. Seguì poi da Tolosa il documento di Silvio Trentin, Libérer et Fédérer.
«Più tardi conoscemmo appelli e testi analoghi, che provenivano dai gruppi francesi di “Combat”, di “Franc-Tireur” e di “Liberté”, dal “Movimento del lavoro libero” in Norvegia, dal “Movimento Vrij Nederland” in Olanda e anche da sparsi gruppi di tedeschi antinazisti, alcuni dei quali pagarono con la vita la loro avversione alla tirannia», scriveva Silone rievocando l’epoca in cui egli – a partire dal 1941 e contro l’evidenza massiccia di armate hitleriane ormai stanziali, da Parigi a Stalingrado – diede alle stampe quegli appelli, quei manifesti, quelle ipotesi visionarie di chi allora osò pensare che occorresse liberare e federare l’Europa superando i confini delle nazioni.
Oggi abbiamo di nuovo bisogno di quel coraggio ideale per determinare di che consista il progetto europeo in rapporto alle sue finalità possibili: contribuire alla costruzione di un mondo più giusto ed equamente libero per tutti.

Questo noi abbiamo il dovere di ricordarlo, ma non tanto a legittimo titolo di merito per L’Avvenire dei lavoratori come editrice clandestina del "Manifesto di Ventotene", quanto soprattutto a comprova della forza delle idee.

Orbene, solo su un piano di riflessione europeista dove la posta in gioco è se e come l’UE riuscirà a costituirsi in quanto soggetto globale, mi pare possibile inquadrare un dibattito circa le prospettive e la cultura di governo di un partito riformista in Italia. Il punto dolente consiste tuttavia nel fatto che – come avvertono autorevoli osservatori, tra cui l’ex cancelliere Schmidt – nemmeno la governabilità dell’Europa appare realizzabile di per sé, ma dipende a sua volta dalla costellazione globale. Sicché il problema di fondo consiste nel compito di progettare un contributo europeo alla governabilità del mondo.

In alternativa a questo progetto, che Kant chiamava di federalismo cosmopolita, c’è il rischio di uno sgoverno globalizzato sotto l’egida del "mercato", che quanto a forza regolatrice non appare per nulla in grado di intervenire là dove non sussistano attese di profitto quantificabili sul breve termine.

Sic stantibus rebus che ne sarà allora delle grandi questioni rispetto alle quali i feticci neo-liberisti non mostrano alcuna efficacia? Rimarrebbero fatalmente, ovviamente, delle grandi questioni irrisolte. Pensiamo ai mutamenti climatici, per fare un esempio: le conseguenze che si profilano saranno ben più drammatiche di quanto sinora assunto. Da ultimo lo ha certificato nel gennaio scorso il Meteorological Office britannico in un’autorevole sintesi degli studi di settore (Avoiding Dangerous Climate Change). Nella prefazione al volume Tony Blair scrive: “I risultati qui esposti evidenziano come i rischi connessi al mutamento climatico in atto siano ben maggiori di quanto pensassimo”. Accenti inconsueti per un capo di governo occidentale. L’allarme è evidente.

La questione climatica si costituisce come un ambito, vitale per l'umanità, in cui il capitalismo e il libero mercato hanno finora battuto la fiacca. Si tratta di uno dei molti esempi possibili. Ma basta a affermare che, molto laicamente, sull’umanità incombe un rischio multiplo di catastrofe.

Il ragionamento è semplice, un macro-mutamento climatico acuirebbe verosimilmente la già seria crisi alimentare, con conseguenze non solo umanitarie, causa la mancanza d’acqua e l’aumento delle carestie, ma anche strategiche, causa il probabile insorgere di nuovi conflitti armati per l’accaparramento delle risorse residue.

Nessuna persona di senno può negare questi enormi fattori di rischio. Ne consegue che il problema della governabilità, se posto seriamente, non può fermarsi alla scala comunale, regionale o nazionale, ma deve collocarsi in un orizzonte generale dove il progetto cosmopolita ci sfida tutti in modo sempre più urgente.

Non mi è possibile in questa sede, neppure per brevi cenni, tratteggiare la questione, che pur si addensa all’orizzonte, di uno stato d’eccezione globale. Alcuni pensatori contemporanei hanno da qualche tempo avviato su ciò le loro riflessioni. Basti dire che su questa tematica, di benjaminiana memoria, s’impernia in sostanza il dissidio tra la “nuova destra” americana e la “vecchia Europa”.

Mi limito qui a tener fermo solo a questo caposaldo: se la “vecchia Europa” intende concretamente opporsi alla folle tentazione di stringere i ranghi dell’Occidente puntando a governare il pianeta in forza della supremazia tecnologico-militare, occorrerà allora che qualcuno da Bruxelles vada “là fuori”, tra i miliardi e miliardi di nostri consimili, a costruire consenso e collaborazione sulle emergenze che (in ambito ambientale, demografico, alimentare e strategico) minacciano tutti.

Capisco che il contenuto di queste osservazioni può apparire un po' ansiogeno, soprattutto in tempi di egemonia culturale televisiva. Ma la parola “democrazia”, se ancora possiede un senso proprio, dovrebbe significare assunzione di responsabilità da parte di tutti e di ciascuno. Per noi italiani questo rinvia all'Europa. E non è dato capire quale altra grande visione politica dovrebbe perseguire l’Unione se non quella di promuovere una governance democratica mondiale, multilaterale e pacifica.

Insomma, la "vecchia Europa" ha buone ragioni “oggettive” e altrettanto solide ragioni “soggettive” per tessere una prospettiva di azione generale che punti all’adesione di parte consistente degli esseri umani a un progetto di governo politico del mondo. (1. Continua)