In Italia non abbiamo ancora trovato una strada per contribuire alla costruzione di una sinistra europea posizionata al di là delle divisioni degli anni Venti e della Guerra Fredda.
di Felice Besostri
Fatte salve le riflessioni della compagna Luciana Castellina sul Manifesto, nel campo della sinistra italiana, tutta ormai extraparlamentare, non mi pare che l’anniversario del '68 cecoslovacco abbia emozionato più di tanto il dibattito.
Eppure quando il freddo di agosto gelò la Primavera di Praga avrebbe dovuto essere chiaro che la sinistra non poteva essere più quella di prima: la riformabilità dall’interno del sistema sovietico era impossibile.
Ventuno anni dopo il sistema iniziò a sgretolarsi. La non-riforma prese tutt’altra direzione: quella di un capitalismo selvaggio, senza i correttivi che nei paesi capitalistici più avanzati ne limitano in qualche modo gli effetti di darwinismo sociale più marcati.
Questi correttivi, come si sa, sono: libertà, stato di diritto e legalità, cioè un sistema politico democratico, un sistema giudiziario tendenzialmente imparziale, un sistema economico regolato da una normativa capace di garantire la trasparenza dei mercati.
In Cecoslovacchia abbiamo assistito a tutt'altro: i beni pubblici sono stati depredati da oligarchi, ognuno con la sua protezione politica. Spesso il confine tra potere politico, potere economico e criminalità organizzata era ed è molto incerto. Questo intreccio ha consentito a sua volta di manipolare e, quindi, vincere elezioni solo formalmente libere.
In questi quarant'anni il fascino di antiche parole d’ordine, come la difesa del campo socialista, hanno impedito che la sinistra italiana trovasse una sua strada autonoma e desse il suo contributo alla costruzione di una sinistra europea posizionata al di là delle divisioni degli anni Venti e della Guerra Fredda.
Sono convinto che una seria riflessione avrebbe dovuto iniziare già dai "Fatti" di Ungheria del 1956 (notare l’espressione "Fatti", anodina e perciò conciliante!), ma, non volendo gettare benzina sul fuoco, mi sarei accontentato di un ritardo di soli ventidue anni: purtroppo ne abbiamo accumulati altri quaranta.
La storia non si può riscrivere, ma se la conclusione è -- caso unico nelle democrazie parlamentari di tutti e cinque i continenti -- che la sinistra, da quella socialista a quella antagonista, non abbia più alcuna rappresentanza nel Parlamento italiano, allora bisognerà pur dire che la dirigenza complessiva della sinistra italiana ha contribuito con una lunghissima sommatoria di scelte non compiute e occasioni mancate al bel risultato che sta sotto i nostri occhi!
Comprendo le resistenze a prendere atto che il comunismo sovietico avesse fallito, perché nel nostro paese si riteneva che ogni presa di distanza si sarebbe poi coniugata con una -- a mio avviso non necessaria -- deriva moderata di adattamento al sistema. In realtà in Italia non si è stati capaci di passare dell’isolamento filosovietico all’autonomia della sinistra, come nella migliore tradizione socialdemocratica europea.
Se la sinistra non è alternativa, che sinistra è? Nella sua alternatività può essere graduale e prudente, stabilire alleanze con forze di centro più moderate, porsi obiettivi intermedi, ma non assimilarsi, in nome della governabilità e del realismo, alle pratiche di potere e di sottobosco del potere di quelle forze, che non si pongono l’obiettivo di cambiare la società.
Una sinistra non meno vacanziera della destra, una sinistra che si dimentica l’anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia, merita che, proprio approfittando dell’anniversario, si tenti massicciamente di far passare una impossibile analogia tra la Cecoslovacchia del 1968 e la Georgia del 2008, quasi che truppe russe e truppe sovietiche fossero la stessa cosa e che la Primavera di Praga avesse gli stessi obiettivi della Rivoluzione delle Rose.
La omologazione culturale è evidente, perché i comunisti per lo più difendono o giustificano i russi mentre i riformisti stanno dalla parte dei georgiani. E questo vale anche per la maggioranza di coloro che provengono dalle fila del Psi. Stupefacente! Stupefacente, da parte di chi apparteneva a un partito che ebbe il coraggio di candidare e far eleggere Jiri Pelikan.
Ricordiamolo: Pelikan era entrato nella gioventù comunista nel 1939, aveva partecipato alla seconda guerra mondiale ed era stato incarcerato dai nazisti. Nel Dopoguerra aveva presieduto dell'Unione Studenti e successivamente era stato nominato direttore della televisione cecoslovacca. Esponente della "Primavera di Praga", venne rimosso dall'incarico. Riparò a Roma dove ottenne prima l'asilo politico e quindi la cittadinanza italiana, E' stato parlamentare europeo, dal 1979 al 1989. Per favore, ditemi: che cosa c'entra tutto ciò con la situazione russo-georgiana-osseta?!
Non voglio rinfocolare polemiche, ma lanciare un messaggio politico: la sinistra potrà ritrovare la sua forza se sarà capace di affrontare i nodi del passato. E l'assunzione esplicita di un diverso atteggiamento rispetto agli avvenimenti cecoslovacchi del 1968 costituisce senza dubbio uno di questi nodi.
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