di Felice Besostri
Alle 6 del mattino del 5 novembre ore italiane Obama non aveva ancora pronunciato il suo discorso di investitura pur avendo raggiunto la maggioranza dei grandi elettori.
L’elezione del Presidente degli Stati Uniti presenta una particolarità, che non sempre è capita, cioè non è una elezione diretta, bensì indiretta. Si elegge il Presidente degli Stati Uniti e non il Presidente dei cittadini statunitensi: gli USA sono uno stato federale e perciò il Presidente deve rappresentare la maggioranza degli Stati.
La Svizzera, che è pure uno stato federale, per i referendum richiede una doppia maggioranza del popolo e dei Cantoni.
Se così non fosse, le elezioni si deciderebbero in un pugno di Stati: California, Texas, New York, Florida, Pensilvania, Illinois e Ohio, cioè sette stati su cinquanta.
Il meccanismo dei grandi elettori favorisce gli stati piccoli perché nessuno stato, quale che sia la sua popolazione, può avere meno di tre grandi elettori.
I grandi elettori sono in numero pari ai rappresentanti dello stato federato nel Congresso degli Stati Uniti, cioè alla somma di senatori e deputati.
I senatori sono sempre due per ogni stato e, quindi, gli stati piccoli pesano proporzionalmente di più.
Teoricamente i grandi elettori non sono obbligati a votare per il candidato per il quale si sono dichiarati, ma grandi elettori infedeli si calcolano in una decina nella storia delle elezioni presidenziali.
I grandi elettori potrebbero giocare un ruolo solo in caso di più di due candidati che conquistino grandi elettori, in modo che nessuno dei candidati raggiunga il quorum di 270 grandi elettori.
I grandi elettori sono 538, perché si devono aggiungere alla somma di deputati e senatori i tre grandi elettori del distretto federale che comprende la città capitale, Washington.
L’impresa di Obama è stata notevole perché la distribuzione demografica tra il 2000 e il 2008 ha penalizzato gli stati tradizionalmente democratici, ad eccezione della California. New York, Pensilvania, Illinois hanno perso due grandi elettori ciascuno, mentre sono aumentati delle stesse unità in Texas e in Florida.
La conquista di stati tradizionalmente repubblicani era essenziale, altrimenti poteva ripetersi la beffa delle presidenziali del 2000, con Gore perdente benché avesse un paio di milioni di voti in più. Allora fu decisiva la Florida, con una storia di brogli mai chiariti.
Obama è giovane, parla bene ed è un meticcio, questo basta per renderlo simpatico a chi non coltiva pregiudizi razziali, per di più si è impegnato nel volontariato: il sostegno dei progressisti è assicurato.
La sua nomination alla Convention dei Democrats sono un segno di vitalità del sistema politico statunitense.
Dal nostro osservatorio italiano con un primo ministro ultrasettantenne e la sua ombra, a capo del PD, sulla piazza da trent’anni, sconcerta che a 47 anni si possa diventare Presidente degli Stati Uniti, essendo per di più figlio di un immigrato africano.
Non solo, la sua esperienza politica come senatore risale al 2004: Clinton diventò Presidente nel 1992 ancora più giovane, a 46 anni, ma era già stato, quasi ininterrottamente, Governatore dell’Arkansas dal 1978.
La sua elezione significa che il fattore razziale non ha giocato contro di lui, se non in alcuni stati, ma se non ci fosse stata la crisi finanziaria di Wall Street e dintorni, le sue possibilità di vittoria sarebbero state ridotte.
Col voto si può esprimere adesione ad un candidato o ad un partito, ma anche punirli: con la popolarità di G.W. Bush ridotta al 30% e l’opinione corrente della responsabilità dell’amministrazione federale nella crisi, ampi settori della popolazione hanno voluto punire i repubblicani.
La filosofia repubblicana di mercati liberi e sregolati è responsabile della bolla speculativa e quindi del suo scoppio. Durante i due mandati di Bush si sono alleggerite le imposte ai più ricchi, ma i disastri finanziari sono stati garantiti dal bilancio federale: le vittime della crisi hanno pagato due volte, come detentori di titoli od immobili con minore valore e come soggetti tassati.
La crisi ha impegnato il bilancio federale e perciò dal 20 gennaio 2009 Obama non avrà ampi spazi di manovra. I democratici hanno guadagnato seggi alla Camera dei Rappresentanti ed al Senato ma non in numero sufficiente per bloccare l’agenda parlamentare dando la precedenza ai loro progetti di legge.
Occorre guardare con fiducia allo scenario, che si apre con l’elezione di Obama, anche se non bisogna farsi soverchie illusioni che si possa rovesciare di colpo le politiche finora perseguite, in Irak ed Afghanistan in primo luogo. Last but not least, la campagna elettorale di Obama è stata molto costosa. Ha raccolto molti contributi di persone fisiche, ma senza i sostanziosi contributi di imprese e finanziarie non avrebbe potuto avere l’ampia copertura televisiva per i suoi spot.
Il rapporto tra finanziamenti privati e favori pubblici non è meccanico e non sempre raggiunge la spudoratezza dei favori fatti dai Bush, padre e figlio, ai petrolieri, ma un condizionamento ci sarà: quello, più che l’esperienza internazionale, sarà il vero banco di prova per Barack Hussein Obama.
P.S.: Mi sento colto da una punta d'invidia, soprattutto se penso al nostro Paese. Personalmente è dal 1961 che vorrei (e mi impegno attivamente per) una società più libera e più giusta, in sintesi: socialista e democratica. Chissà se posso avere anch’io un sogno, vivendo in Italia e non negli USA?
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