di Felice Besostri
È un fatto che, nel secondo dopoguerra, la sinistra in Italia non si è mai organizzata intorno ad un partito socialista egemone a differenza degli altri paesi europei.
Nel resto d’Europa, infatti, il partito di gran lunga maggioritario nella sinistra era di tipo socialdemocratico o laburista indipendentemente dal nome. Il partito austriaco SPÖ non ha mai sostituito la parola socialista con socialdemocratico, pur essendo tale per organizzazione, programma politico e fondamenti ideologici.
Nel panorama socialista europeo mantenevano una loro peculiarità il PSI in Italia, la SFIO prima e il PS poi in Francia ed il PSOE in Spagna: il primo non faceva parte nel secondo dopoguerra neppure dell’Internazionale Socialista, che, invece, comprendeva il PSDI di Saragat.
Per un certo tempo si era coltivato il progetto di un socialismo mediterraneo, del Sud Europa, alternativo al socialismo continentale, scandinavo e britannico.
Tuttavia l’unificazione socialista in Francia sotto Mitterrand, l’ascesa dei socialisti portoghesi con Soares e degli spagnoli con Gonzales ed infine dei socialisti greci di Papandreu crearono nei loro paesi una strutturazione politica simile a quella tradizionale socialdemocratica e laburista: un partito chiaramente egemone a sinistra e alternativo ai conservatori.
Partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti con vocazione maggioritaria, cioè in grado di proporsi alla guida del paese con propri programmi e propri leader.
L’Italia rimase l’eccezione, anche dopo l’unificazione socialista e la comparsa di Craxi alla guida del PSI ed avvenimenti epocali come la caduta del Muro di Berlino e la crisi del sistema sovietico: quest’ultimo fatto confermava vieppiù l’inattualità della storica frattura del movimento operaio tra socialisti e comunisti.
Persino nei paesi dell’Europa Orientale si riprodusse lo schema classico in paesi quali le Repubbliche Ceca e Slovacca, la Polonia e l’Ungheria, grazie alla conversione alla socialdemocrazia di una parte dei partiti già comunisti.
Le ragioni dell’anomalia italiana sono molteplici, ma le ragioni principali sono due: una forte presenza di un partito Democratico Cristiano interclassista e collocato al centro, e non a destra, dello schieramento politico e l’esistenza di un Partito Comunista, che nella pratica organizzava i movimenti sindacali e cooperativi e aveva un radicato insediamento nelle autonomie locali, cioè gli strumenti tipici della socialdemocrazia.
Resta il fatto che né il patto di unità d’azione tra i socialisti ed i comunisti, né la loro divisione, consentivano alla sinistra italiana di porsi come alternativa alla DC ed ai suoi alleati di centro.
Un’unità a egemonia comunista non era praticabile per la conquista del potere nell’epoca della guerra fredda e della divisione dell’Europa tra Est ed Ovest e l’autonomia socialista non raggiunse mai quella massa critica necessaria per diventare alternativa alla DC. Socialisti e comunisti incapaci di regolare i conti con la propria storia, vennero, persino, in concorrenza nelle alleanze con la Democrazia Cristiana: centro-sinistra versus compromesso storico.
Persino l’Ulivo, che conquistò la maggioranza parlamentare in due occasioni, era caratterizzato dall’alleanza con settori della ex democrazia cristiana, cui, comunque, spettava la leadership.
I tentativi di formare in Italia un partito socialista di tipo europeo, malgrado il fatto che nel frattempo il PDS, erede parziale del PCI, fosse entrato nell’Internazionale Socialista, non sono mai stati perseguiti con coerenza e determinazione, come le vicende dei DS testimoniano.
Gli Stati Generali della Sinistra di Firenze (1998) e Congresso di Pesaro dei DS (2001) non andarono mai oltre l’enunciazione di una intenzione, anzi si sono conclusi nel suo contrario, cioè nella creazione di un partito, il PD, che rappresenta l’aggiornamento del compromesso storico, con l’aggravante, che, per riuscire, il nuovo partito doveva, anche formalmente, uscire dal campo della sinistra.
L’anomalia italiana è sotto i nostri occhi, unico paese d’Europa senza una sinistra, in tutte le sue espressioni, in Parlamento e con il maggior partito di opposizione fuori dal PSE, cioè dalla forza maggioritaria dello schieramento progressista in Europa.
L’obiettivo di portare la sinistra italiana nell’alveo del socialismo europeo resta ancora l’unica carta da giocare, ma se resta un compito affidato soltanto alla dinamica politica nazionale, non ha grandi prospettive.
Non c’è dubbio che la socialdemocrazia è uscita vincitrice dalla competizione con il comunismo, una rivincita storica, ma senza ricadute in Italia.
Negli anni 90, ad un certo momento, il socialismo europeo governava in 12 dei 15 paesi dell’allora Unione Europea.
Nel punto più alto della sua forza, però, il complesso dei partiti del PSE aveva abbandonato il terreno classico della socialdemocrazia: i partiti socialisti più forti ed importanti al Governo avevano sposato le ricette neo-liberiste ed avevano cominciato a teorizzare Terze Vie e Nuovi Centri.
Ora da soli governano soltanto tre paesi, Spagna, Portogallo e Gran Bretagna ed in coalizione a guida socialista l’Austria, l’Ungheria e la Slovacchia, cioè sei paesi su 27.
La crisi economica e finanziaria mondiale e le prossime elezioni europee hanno ridato slancio a programmi socialdemocratici, ma in un quadro di progressivo indebolimento dei partiti del PSE, di cui la SPD tedesca è l’esempio più lampante.
Mai come in questo momento è più acuta la contraddizione tra le opportunità offerte dal fallimento delle ricette neo-liberiste a livello planetario e le concrete possibilità per il socialismo europeo di presentarsi come alternativa.
Il problema è costituito proprio dal PSE, che non è un partito socialista europeo, ma una confederazione di partiti nazionali, nella loro maggioranza privi di un progetto europeista, come il Manifesto di Madrid dimostra, benché molto pregevole sotto il profilo economico-sociale ed ambientale.
Se il PSE fosse un partito europeo non potrebbe assistere impotente alla tragedia della sinistra in Italia, che della sinistra europea è diventata il ventre molle.
Senza l’Italia il PSE è destinato a soccombere rispetto al PPE, ma non si vedono iniziative per rovesciare la situazione. Già i socialisti italiani hanno sperimentato l’indifferenza dei socialisti europei nelle elezioni politiche del 2008: il PD è stato il loro interlocutore principale. Al PS di Boselli si sono date al massimo un po’ di pacche sulle spalle di incoraggiamento.
Proprio perché il PSE non è un partito socialista europeo, ma una confederazione di partiti nazionali, i suoi partiti maggiori sono più interessati ai propri organigrammi nelle istituzioni europee, Presidenza del Parlamento Europeo e delle Commissioni più importanti, che a concorrere a creare in Italia i presupposti per un rinnovamento e ricostruzione della sinistra sulla base delle tradizioni e dei valori del Socialismo europeo.
La riforma della legge elettorale europea avrà come effetto di far scomparire la sinistra italiana, compresi i socialisti del PS, dal Parlamento Europeo e di ostacolarne addirittura la partecipazione alle elezioni.
Si introdurrà una soglia di sbarramento per potere beneficiare della ripartizione dei seggi, ma lasciando inalterate le norme sulla presentazione delle liste.
Si gioca sulla stessa sopravvivenza di una sinistra italiana, a meno che non si compia una riaggregazione proprio in nome del socialismo europeo, non come sigla, data in franchising al partito membro, ma come riferimento politico ed ideale.
Secondo l’antica saggezza cinese, ogni sfida, per quanto difficile, contiene sempre una grande opportunità.
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